Testi Critici

  • "Come nasce una mostra" di Dario Cusani
  • "Ritratti" di Paolo Balmas
  • "Il portone della rivoluzione" di Dario Cusani
  • "Genova" di Maurizio Sciaccaluga
  • "Dario Cusani - California oh cara?" di Roberta Perfetti
  • "La tappa di Ravenna" di Dario Cusani
  • "Viaggio in Italia" di Paolo Balmas
  • "Flusso e Frammento" di Silvia Pegoraro
  • "Introduzione a Spaesamenti" di Dario Cusani
  • "Dal Ferro al Silicio" di Paolo Balmas
  • "California oh cara?" di Paolo Balmas e Gianluca Marziani
  • "Per Dario Cusani" di Ela Caroli
  • "Le stanze segrete" di Barbara Martusciello
  • "Gli arte-fatti" di Dario Cusani
  • "Ritorno a Napoli" di Dario Cusani
  • "Interno di esterni" di Paolo Balmas
  • "Interno di interni" di Marco Meneguzzo
  • "Colori e ritmi" di Paolo Balmas
  • "Spaesamenti" di Gianluca Marziani
  • "Dal pennello al mouse" di Dario Cusani
  • "Introduzione a Colori e ritmi" di Dario Cusani
  • "La memoria, i ricordi tra immagini e musica" di Lorella Scacco
  • "Nato il 4 Agosto" di Dario Cusani
  • "Sogni belli da raccontare (colloquio con Dario Cusani)" di Erri de Luca
  • "Dario Cusani, Memory Places" di Sergio Segio
  • "Ringraziamenti" di Dario Cusani
  • "Ho conosciuto New York tardi" di Dario Cusani
  • "Navigazioni" di Valerio Dehò
  • "Un ponte dall'America all'Italia" di Antonio Bassolino
  • "Ravenna" di Sabina Ghinassi
  • "Illustrazione Quadri" di Dario Cusani
  • "A Dario" di Erri de Luca
Autore: Dario Cusani

Nel giugno del 1997 feci un sopralluogo all’ex Italsider di Bagnoli (Napoli), dopo un incontro con un mio amico d’infanzia Lello De Luca Tamajo, nominato Presidente della Bonifica Bagnoli, che aveva l’incarico di smantellare la grande acciaieria: un pachiderma ferito a morte che si estendeva su due milioni e cinquecentomila metri quadrati e che aveva rappresentato vanto e vergogna dell’industria pubblica italiana in tutto il novecento. Il suo invito stimolò la mia curiosità per due miei ricordi legati alla fabbrica.

Da ragazzo, negli anni ’60, scendendo dalla collina di Posillipo, dove abitavo, attraversavo la gigantesca fabbrica posta tra due mura che recintavano la strada per qualche chilometro. Ogni tanto capitava di essere bloccati al passaggio a livello, per dare la precedenza al treno che portava i vagoni carichi di materiale dall’interno della fabbrica, dove vi erano i capannoni con le varie lavorazioni, al lato mare dove le navi erano in attesa di caricare.

Un treno nella fabbrica, una città nella città con le sue ciminiere che cacciavano fumo nero che si stagliava nel cielo azzurro, divenuto grigio come il mare antistante alla fabbrica, invisibile ai passanti perché protetto da quel lungo muro, quasi fosse un carcere. Visioni infantili di grande suggestione che non potevano immaginare i drammi che all’interno, di lì a poco, si sarebbero svolti per decine di migliaia di lavoratori che lentamente avrebbero perso il posto di lavoro, dopo aver faticato per anni ed anni. Fra l’altro, la fabbrica, visibile in lontananza da Nisida, era in una delle baie più belle del mondo dove si faceva il bagno nell’acqua inquinata dal minerale e tutt’intorno le abitazioni erano ingrigite dai fumi, anche se dalla fabbrica gli abitanti traevano il loro sostentamento. L’altro ricordo è legato ai miei scadenti risultati scolastici.

Durante il periodo estivo, ero messo in punizione a lavorare in fabbrica con tuta e mansioni di manovale.

Assistevo alla fatica dell’uomo che un’industria metallurgica comportava agli inizi degli anni 60 quando le tecnologie del computer erano ancora lontane.

Tornai in fabbrica nel 1967 da studente universitario, non più come manovale, ma quella immagine di fatica non cambiò, anzi fu ancora più evidente.

Gli operai lavoravano nella fonderia a ciclo continuo con turni di dodici ore e tutte le lavorazioni erano a caldo con temperature torride ed il rumore delle macchine era assordante. Realizzavamo lingotti di rame che venivano laminati per fare il filo grezzo che poi diventava linea elettrica per i treni o per la corrente ad alta tensione con la quale fu elettrificato il Mezzogiorno negli anni del boom economico.

Un centinaio di operai montavano alle sei di mattina sbarcando dall’hinterland della città con mezzi pubblici o, i più fortunati, con motorette e biciclette, ma sempre puntuali e legati al posto di lavoro che per loro rappresentava la conquista del benessere e della sicurezza.

Certo si viveva per lavorare con turni di lavoro e lunghi trasferimenti che lasciavano a stento il tempo di mangiare un pasto a casa e dormire.

Condizioni di lavoro e, soprattutto, condizioni umane che mi colpirono molto e che il ‘68 servì a spazzare via, anche se portò con se una rivoluzione che trovò impreparata la classe dirigente ed imprenditoriale, specialmente nel Mezzogiorno.

E così nel 1973 vendemmo la Metalrame e per me finì l’esperienza industriale.

Con un salto di 24 anni mi sono ritrovato di nuovo in una fabbrica in fase di smantellamento come la nostra nei miei ultimi ricordi. Quando quella mattina andai a visitare l’Italsider, mi sembrò fossero passati non anni, ma secoli: ebbi la sensazione di un inferno dantesco e immaginai un gigantesco mostro che prima sputava fumo e fuoco e che ora era lì, a terra, inanimato senza più il pullulare di migliaia di lavoratori che lì dentro avevano speso la loro esistenza.

Poi il prof. De Luca mi raccontò che i cinesi avevano comprato delle strutture e si erano fermati alcuni mesi a smontare un laminatoio che si erano portati via e questo fece scaturire il filo conduttore di questi miei lavori che ho intitolato "All'Italsider che se ne va...".

Allora i luoghi si sono animati acquistando l'idea di movimento e diventando una nave o un treno, un ragno o un coccodrillo che si portano via la fonderia, il laminatoio in luoghi lontani per farli rivivere lì. Al titolo ho poi aggiunto, come si fa per un nemico "ponti d'oro" perché questo smantellamento liberava una delle baie più belle del mondo da un mostro che ha rappresentato un'epoca oramai chiusa per sempre, pur rendendomi conto che questa chiusura è stata un dramma per migliaia di lavoratori che hanno dovuto affrontare la così detta riconversione, una rivoluzione tecnologica in pieno svolgimento.

Ma proprio la chiusura della grande acciaieria, simbolo della fabbrica di gigantesche dimensioni, mi dava lo spunto di approfondire le prospettive di un così radicale cambiamento che faceva ipotizzare scenari molto differenti in rapida evoluzione.

Nel 1998 ebbi l’occasione di conoscere un esperto del mondo dei computer, il prof. Luigi D’Angola che vive da trent’anni in America, che mi raccontò come le nuove tecnologie avevano modificato il mondo del lavoro e mi parlò del lavoro a distanza dove gli operai lavoravano ai terminali dei computer con le fabbriche lontane anche migliaia di chilometri. In questo modo il lavoro andava dove c’erano i lavoratori, a differenza di ciò che era accaduto in Italia nel dopoguerra, con le migrazioni dal sud al nord con tutti i drammatici problemi di ghettizzazione che si erano verificati specialmente alla FIAT di Torino. Le nuove tecnologie portavano, invece, i terminali di comando nei luoghi dove si trovava la manodopera, integrandosi con la cultura e le abitudini del luogo. Una flessibilità del lavoro che il prodigio del computer rendeva possibile.

L’approfondimento di questo nuovo mondo, già in fase avanzata negli Stati Uniti, mi fece pensare ad un nuovo titolo della mostra che chiamai “Dal Ferro al Silicio” a simboleggiare il passaggio dal minerale storico in declino al nuovo astro nascente, il silicio con il quale si realizzano i microchips dei computer. E così ai quadri realizzati sull’Italsider cominciai a pensare di affiancare lavori che rappresentassero il silicio e quindi il mondo delle tecnologie.

Ultima nata, a fine ‘900, è stata l’installazione “Siam sei piccoli topolin…” dove sei mouse con il filo tagliato stanno mangiando il supporto cartaceo su cui è stampata un’immagine del Cristo morto che scende dall’alto lungo l’altare mentre la stessa immagine è riportata sul monitor di un computer portatile a simboleggiare il passaggio dall’era della carta a quella del floppy per la conservazione dei documenti e delle immagini.

Ma anche il simbolo del potere tecnologico che si sta mangiando quello spirituale.

Rappresentazioni simboliche che, spero, provocheranno nel pubblico voli fantastici e riflessioni esistenziali. Credo che il compito dell’artista sia questo: gettare un sasso nello stagno delle coscienze.

Autore: Paolo Balmas

A chi osserva i "ritratti" di Dario Cusani appare subito chiaro che il trattamento adottato sottopone l'immagine ad una sorta di diluizione la quale però, stranamente, piuttosto che annacquarla riesce ad esaltarne alcune caratteristiche salienti, quasi volesse farne emergere la vocazione segreta.

Il nodo qualificante dell'intera operazione, quello che decide o meno della sua riuscita, è dunque tutto nella scelta delle coordinate dimensionali e quantitative che presiedono alla realizzazione di ogni singolo pezzo.

Ma perché darsi la pena di agire entro un vicolo cosi stretto ed in base ad una interazione di variabili cosi difficile da dominare? La risposta va cercata nella particolare natura delle immagini di partenza. Come nel caso dei suoi "interni" anche qui Cusani si rivolge all'universo del quotidiano: persone amiche, parenti, ambienti frequentati in maniera costante sia in privato che per lavoro.

Ora, qualunque sia il codice visuale entro cui ci si intende muovere per l'arte contemporanea indagare soggetti come questi significa sempre in qualche modo metterli in cornice, strapparli allo spazio empirico cui appartengono e ricondurli entro lo spazio socializzato della comunicazione, dunque togliere loro i connotati più fragranti dell'intimità e della privacy nel momento stesso in cui si sceglie la modalità espressiva cui affidare il proprio messaggio.

Bene, Cusani, ha cercato di evitare proprio questo, o forse sarebbe meglio dire di dare forma simbolica ad una simile inattingibile aspirazione: la fotografia da lui stesso realizzata è assunta ancora come rappresentativa della sfera dell'intimità psicologica mentre la squadrettatura in verticale e in orizzontale altro non rappresenta che l'universalizzazione e la riduzione ai minimi termini del principio dell'incorniciamento.

Autore: Dario Cusani

Duecento anni fa avvenne a Napoli una piccola rivoluzione che, comunque, aveva in sé il seme del progresso e dell'innovazione per cercare di superare vecchi sistemi di potere con i quali il popolo veniva lasciato ai margini, nell'ignoranza e nella miseria.

Il re e la sua corte, come oggi il Palazzo del potere con i suoi cortigiani, vivevano lontani dalla realtà popolare, da quella quotidianità fatta di piccole cose che non funzionavano e che erano causa di problemi e preoccupazioni che bisognava continuamente superare. Certo duecento anni fa vi era una condizione economica, sociale e culturale assai più critica di quella di oggi, ma le problematiche esistenziali erano e sono rimaste sempre le stesse. Il desiderio del progresso ha spinto l'uomo alla ricerca di novità ponendo in prima linea quelle menti e quegli spiriti più sensibili e ricchi di ideali.

Il giovane Gennarino Serra di Cassano, rampollo di una delle più importanti famiglie nobili del regno, era stato mandato a Parigi a studiare ed aveva vissuto i fermenti e le gesta della Rivoluzione Francese con la quale quel popolo, pur nel sangue e con sacrificio, aveva costruito lo Stato che noi italiani, frantumati da continue dominazioni straniere, non avevamo più dall'Impero Romano. Ma, soprattutto, la Rivoluzione in Francia aveva creato il "senso" dello Stato e cioè il principio che il popolo è Sovrano e decide i suoi destini non subendo poteri esterni o delegando a qualcuno le decisioni sulla propria esistenza (come purtroppo continua ad accadere da noi che non abbiamo conquistato, nel sangue, questi valori reali di libertà!). In questa situazione il giovane Gennarino, che pur godeva dei massimi privilegi della sua casta, si trovò a battersi per gli ideali di libertà, giustizia, eguaglianza e fratellanza prendendo parte alla Rivoluzione napoletana del 1799.

La sua frase sul patibolo:"Ho sempre lottato per il loro bene e ora li vedo gioire per la mia morte" dice chiaramente come gli ideali siano più fragili della "pagnotta" che un popolo, spesso ignorante, non lungimirante, ma, ancor più spesso, lasciato in condizioni esistenziali difficili, preferisce agguantare per " tirare a campare". Gennarino pagò con la vita il desiderio di far prevalere gli ideali sul bieco potere. Il padre, che aveva chiesto invano la grazia al Re, dal giorno dell'esecuzione chiuse questo portone, quale testimonianza di quegli ideali per i quali il figlio Gennarino era morto.

Il portone da allora non è stato mai più riaperto.

Nella mia ricerca sui "luoghi della memoria" questo portone è uno dei simboli più significativi e sono felice di averlo potuto simbolicamente "aprire" perché credo fermamente che gli ideali siano la linfa per crescere e migliorare durante il cammino della propria esistenza.

Oggi non si farebbe più una rivoluzione come quella francese o napoletana, anche se le tante guerre in paesi vicini e lontani dicono che la conquista delle proprie radici e della propria identità è ancora lontana.

Oggi il mondo progredito fa altre rivoluzioni che portano progresso e innovazioni, come quella tecnologica. Il computer con i suoi derivati come Internet stanno cambiando il nostro modo di vivere.

E proprio il "Portone della rivoluzione" di Gennarino è stata per me l'occasione di realizzare questa installazione, per la prima volta, senza usare pennelli e colori ma elaborando tutto con il solo computer, montando le varie parti in un collage che ricostruisse, con la mia fantasia, un'immagine simbolica di duecento anni fa, che rendesse omaggio agli ideali che spesso hanno portato al sacrificio della vita. Il mouse ha quindi sostituito il pennello e credo non si sia nulla di scandalistico, anche se i conservatori dell'arte potrebbero gridare "orrore!". A guidare un pennello o un mouse è sempre l'essere umano con la sua creatività, la sua cultura ed i suoi ideali.

Quelli che una mannaia non potrà mai far morire.

Autore: Maurizio Sciaccaluga

Intravedo città invisibili tra le rughe dei lavori di Dario Cusani.

L’artista non racconta Genova – come non ha mai raccontato Napoli e non racconterà Milano o Parigi o New York ma un luogo che di Genova ha vesti e sembianze pur vantando un’anima profondamente, diversa edulcorata da ogni macchia e privata di ogni riflesso.

Introducendosi in un paese che ha dimora soltanto oltre i limiti dello specchio., cusani esplora se stesso citando la città quale testimone del cammino percorso e propone a guisa di cartolina uno stato d’animo, un desiderio, un impressione. Prediligendoli libero arbitrio dello scenografo alla minuzia dell’ archeologo, Dario segue personali tracce che portano ed indirizzano verso Oceana, New Lanark, utopia forse persino Atlantide; a fronte di costruzioni imponenti e durature- reali ed esistenti- raccoglie le “ceneri delle altre città possibili che scompaiono per fare loro posto e non potranno più essere ricostruite ne ricordate.

Nelle opere di Dario Cusani non è possibile trovare notizie di quella “Genova città dei gatti. Angoli neri” descritta da Paul Valéry. Come non vi è testimonianza alcuna ne della città vecchia dei “carruggi” cantata da Fabrizio De Andre’ ne degli sventramenti urbanistici compiuti a seguire l’ultimo dopoguerra. L’artista si muove ed aggira in un labirinto precluso da altri sguardi cerca tra le pieghe delle proprie sensazioni ove scarichino pesi e tensioni le linee di forza di monumenti e cattedrali. Interno di esterni è una precisa equazione fra la storia – pietre e spazi di una metropoli – ed il desiderio – tempi e modi di una memoria.

“…le città credono di essere opera della mente o del caso, ma né l’uno né l’altro bastano a tenere su le oro mura. Di una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”

Tratto da "Le città invisibili" di Italo Calvino

da inserire

Autore: Dario Cusani

Nella mia ricerca sui “luoghi di vivere” ogni mostra è per me un’occasione di nuove conoscenze che si trasformano in propellente per il lavoro che riceve un’ulteriore spinta in avanti.

E così è stato anche per Ravenna dove la conoscenza di luoghi e persone mi ha stimolato lavori che, solo dopo molto hanno portato a queste riflessioni:

-ho affrontato per la prima volta il tema del cimitero (come luogo del vivere della memoria) in un modo allegro e non triste, perché questa è la sensazione che ho provato visitandolo. Ne è nato “Galleria” che è un corridoio verso l’ignoto pieno di luce, fiori e colori, mentre l’esterno, la nostra realtà, è cupo e lugubre. La lapide con la scritta Galleria si riferisce quindi all’aspetto negativo della morte ritenendo i luoghi di esposizione dell’arte senza vita perché senza gente. Da questa considerazione è nata l’idea di realizzare la performance in Piazza del Popolo per portare l’arte a conoscenza della gente ed anche in questa occasione Ravenna rappresenta un’esperienza importante essendo la prima città nella quale realizzo questo mio progetto che spero colpisca il segno.

A rafforzare questo convincimento dei multipli di alcuni lavori in diversi negozi del centro storico di Ravenna che mi hanno dato la loro cordiale disponibilità. E ciò in aggiunta ai tre luoghi espositivi che in questa mostra si affiancano alla galleria d’arte “Sumithra”che sono luoghi di grande frequentazione del pubblico con la “Cà de ven”, l’albergo “Cappello” ed il negozio “Mobilia”. Sarà un’ulteriore occasione di avvicinare il mio lavoro alla gente.

- Ho ricevuto un forte impulso il piazzamento dal loro contesto dei luoghi fotografati come il canale della bella oasi del WWF diventate le corna di un toro ne “L’oasi del toro”, o la torre pendente incastonata tra quinte teatrali nel “Palcoscenico spaziale”, o una delle fabbriche del petrolchimico diventata nell’era post moderna “La fabbrica dei sogni” mentre una sua parte si è trasformata in un sax ne “La fabbrica dei suoni”.

- Ho affrontato un ulteriore passo in avanti il flebile tentativo di affrontare la figura, non ancora un soggetto vivente, ma già molto più vivo se si paragona “Il compianto” dello scorso anno con il Guidarello che sta prendendo dolcemente il sole sul mare.

Ho accostato la figura inanimata di una statua al simbolo di una persona che ha attraversato il mio immaginario come un lampo di luce esaltante (senza entrate nel merito del suo operato che lascerei al giudizio silenzioso di ognuno e della storia): il Moro di Gardini veleggia in bolina stretta come si conviene ad un capitano coraggioso. E se con Guidarello è un condottiero, sul mare davanti a casa sua è “Il naufrago”, descritto da Lucrezio come colui del quale “…non ti rallegra l’altrui destino, ma la distanza di una simile sorte”.

-Ho notato che il mare e l’acqua hanno trovato molto spazio in questi lavori: mi ha colpito l’acqua che attraversa Ravenna ma che non si vede, con canali che fuori città diventano il collegamento con il mare dal quale è arrivato, nella storia, tutto il bene e d il male possibile.

-L’acqua come specchio e riflesso di sé, come nel “San Vitale rotante” che ruoto alternando la realtà al suo sogno o ne “Lo specchio del popolo” che raffigura la piazza dove ognuno mira gli altri per mirar se stesso.

-Una novità assoluta nel mio lavoro è costituita invece della scomparsa della pittura a favore del fotocollage con il quale ho cercato di ottenere forme nuove e piazzamenti come nei due “interni”: il negozio “Mobilia” e la “Cà de ven”. un esperimento mi sembra riuscito sia ne “Il triangolo di Mobilia” che in “Interior machine” per non parlare de “L’antro del piacere” che con la foglia d’oro circonda quel luogo unico. Questa svolta è avvenuta dopo aver realizzato “Interno ravennate da Jessica” nel quale per la prima volta ho ripreso un “cucina” invece del solito “salotto”, il che mi ha dato la sensazione che potevo osare. Spero che il dopo Ravenna porti nuovi lavori costruiti su questa bella esperienza, una tappa di viaggi tra luoghi e persone alla ricerca delle radici dell’io.

Autore: Paolo Balmas

Della nostra città in genere ci sembra di sapere tutto. Poi quando magari capita un amico da fuori e ci propone di fargli da guida ci accorgiamo di quanto poche siano le nostre certezze su tutto ciò che potrebbe interessarlo.

Tuttavia mentre, accompagnandolo in giro, cerchiamo di raccapezzarci in mezzo a nozioni storiche di seconda mano, date che non tornano e stili che non somigliano neanche un po’ a quelli dei libri di storia dell’arte, ci accorgiamo anche di quante altre cose affollano la nostra mente dinnanzi ad ogni scorcio, ad ogni facciata di palazzo, ad ogni piazza, monumento o giardino.

Sono ricordi, associazioni d’idee, sensazioni e pensieri divenuti latenti nell’opacità del quotidiano, ma pronti a riaffiorare nel momento in cui ci si impone un confronto tra la nostra percezione di routine e lo sguardo vergine di chi vive altrove.

Molti di questi "contenuti" richiamati dalla "forma" urbana appartengono solo al nostro privato, ma molti altri sappiamo bene di condividerli con un numero di concittadini talmente grande che se proviamo ad immaginarlo ci assale un piccolo brivido di compiacimento. E forse è proprio questo piccolo brivido, questo sapersi partecipi di un sentire collettivo ed epocale che fa da bussola a romanzieri e poeti quando riescono a farci amare luoghi che non conosciamo, e che pure esistono, attraverso un semplice accenno di descrizione, o anche soltanto un nome, inseriti, al momento giusto e quasi senza darlo a vedere, all’interno di una storia avvincente o nella tramatura ritmica ed evocatrice di un componimento in versi.

La ricerca di Dario Cusani sulle città d’Italia parte proprio dal tipo di materiale psichico che abbiamo appena descritto e indaga le sue chances di universalità, le sue possibilità di divenire patrimonio comune disancorandosi sì dall’intimismo su cui si fonda, ma evitando anche di tagliare del tutto i ponti con esso, o, meglio ancora, con le istanze di riflessione e l’impulso ad interrogarsi che esso contiene.

Si tratta, in altre parole, di una sorta di "turismo interiore" che muovendo dalla complessità del vissuto cerca di ricondurre l’esperienza personale a valori esistenziali non detti, non esplicitati, ma propri di una intera comunità. E questo non per un esercizio fine a se stesso, ma per poi tentare un ulteriore salto, quello verso un discorso etico e in qualche modo anche politico che sia attuale e circostanziato, concreto e privo di retorica. Naturalmente in tutto ciò l’immaginazione ha una parte importante. E’ solo attraverso di essa infatti che diviene possibile per Cusani dapprima disarticolare e far crescere d’intensità quel dato immediato e diretto che nell’economia del suo lavoro è rappresentato dalla ripresa fotografica e quindi aprire la sua opera all’incontro fecondante con la dimensione del simbolico.

La fotografia viene cioè moltiplicata, sezionata, iterata, scomposta e ricomposta con una sorta di furore musicale, ora armonico ora dissonante, che alla fine trova sempre il varco analogico, l’omologia formale che, come un magnete a carica metaforica, riesce ad attrarre su di sé le piccole gioie, le insofferenze, le ferite, i desideri, le aspettative, le delusioni, i sogni, le frustrazioni, le ammaccature, le paure e le speranze che, quali boe sommerse o fari intermittenti, regolano a seconda dei casi, giorno dopo giorno, il percorso della nostra sempre più faticosa navigazione urbana. E’ a questo punto che l’artista interviene con la pittura. In una maniera che è insieme scoperta ed illusionistica egli amplifica il significante intravisto, lo ambienta, o meglio ancora, lo "mette in scena" trasformandolo in una icona che si sforza di riunire in sé le qualità visionarie dell’immagine onirica e l’efficacia comunicativa dell’affiche pubblicitaria.

Se quanto fin qui detto può valere - così mi auguro – come chiave per avvicinarsi al procedimento creativo seguito da Cusani, di altre parole ha invece bisogno l’illustrazione del suo programma di lavoro.

Partito da una ricognizione delle due città che conosce meglio Roma (dove vive) e Napoli (dove è nato) il nostro autore si è presto reso conto del fatto che il suo "metodo" era in qualche modo esportabile, applicabile ad altre realtà urbane altrettanto interessanti, usando naturalmente la propria stessa sensibilità come strumento sostitutivo di quell’esperienza stratificata che viene a mancare allontanandosi dall'ambiente in cui si abita e si lavora. Un rischio maggiore, ma anche una scommessa assai più eccitante! E’ nata così l’idea di questo tour, di questa "mille miglia" critica ma non pessimistica, dedicata alle cento città d’Italia, tutte ricche di vestigia storiche, di forme di cultura originale ed inimitabile, di voglia di vivere, di mali endemici e di problemi che ci si sta sforzando di risolvere.

Per ora il nostro artista ha preso in esame oltre Roma e Napoli, Genova, Bologna, Ravenna, Milano e Spoleto, soggiornandovi ogni volta il tempo necessario a scattare le sue foto, a metabolizzare l’ambiente, ad entrare attraverso amici e conoscenti nelle case private, a visitare insieme ai monumenti consacrati anche locali e gli esercizi più frequentati ecc. ecc. In altre parole, per farla breve, ad entrare di volta in volta in sintonia o distonia con tutti i luoghi più carichi di energia vitale e di segnali del vissuto storico presenti all’interno di ogni singola realtà considerata, studiando nel contempo la loro interazione con il carattere e le abitudine della gente. Ne sono nati fumanti transatlantici di pietra, castelli vertiginosamente protesi verso il cielo ma saldamente ancorati a terra, basiliche poggiate su insondabili flutti vellutati e nerastri, antiche fontane marmoree circondate da verdi campi da golf, immensi mostri marini sulle cui zampe rocciose poggiano splendide ermetiche architetture, portoni pronti ad accogliere come immense rassicuranti vulve le nostre fantasie di regressione prenatale, cantieri edilizi aperti da sempre e da sempre intenti a costruire il già costruito, cannoni e piramidi ottenuti accorpando o sradicando torri medioevali… e tutte le altre strane, inquietanti "meraviglie" che si possono ammirare in questa mostra.

Autore: Silvia Pegoraro

Trovare il casuale nella costruzione e la costruzione nel casuale

Hans Richter

Ritmare la perpetua mutazione delle apparenze

Paul Virilio

1.

Sul finire del secolo scorso la fotografia s'impone in modo sempre più forte e risoluto nel panorama della vita e della cultura occidentale. Sono numerose le risposte date dalla pittura, e dall'arte in generale, a questa - per tanti versi traumatica - apparizione della fotografia. Una delle risposte più radicali e più interessanti viene da Duchamp e da Man Ray, con i quali si arriva a pensare che, se nulla è più arte, ma tutto è un fatto estetico, non si pone più il problema dei rapporti fra pittura e fotografia. Da questa impostazione nasce il principio di Man Ray di dipingere quello che non si può fotografare e di fotografare quello che non si vuole dipingere. La fotografia va così trasformandosi, da "mezzo che dovrebbe produrre la realtà quale è", in mezzo che sottolinea l'assurdità e la gratuità della realtà stessa.

La caratteristica forse più saliente dell'arte di Dario Cusani è proprio un'interessante commistione di pittura e fotografia, non in alternativa l'una all'altra, come perlopiù avveniva in Man Ray o Duchamp, ma in interazione all'interno di una stessa opera.

Lo scatto fotografico di Cusani cattura la realtà (oggettiva?), perfettamente cosciente di non poterne fissare che frammenti: le schegge di un continuum percettivo destinato a sottrarsi in eterno alla nostra ricerca ontologico-esistenziale. Questa coscienza della fotografia come regno del frammentario, del parcellare, del discretum, si esprime con forza nell'ulteriore smontaggio dei brani di realtà fissati dalla macchina fotografica: cattedrali, palazzi, fontane, strade, altre strutture di quel paesaggio metropolitano che sembra costituire il principale serbatoio d' immagini per le realizzazioni artistiche di Cusani, vengono parcellizzati, scomposti in un pulviscolo di dettagli.

Segue, però, un'operazione altrettanto importante nella sua poetica e nella sua prassi artistica: i frammenti vengono ricomposti, a formare una realtà "altra", immaginaria ma dotata di forti appigli alla percezione e soprattutto alla memoria della realtà "oggettiva". L'elemento chiave di tale operazione è appunto la pittura, che immette il discretum meccanico dei frammenti fotografici nell'impalpabile fluidità di un continuum, nella liquida luminosità della materia pittorica, esaltata da colori timbrici e vivaci, pur senza mai completamente mimetizzare le "ferite", le scissioni, le suture del collage fotografico.

Il reale è fatto di oggetti, lo spazio della percezione è un "pieno" di oggetti. Cusani trasforma il mondo-oggetto della percezione e lo rende, in un certo senso, inservibile, non funzionale all'uso della normatività quotidiana. Lo trasforma in una "trappola" giocosa e inquietante a un tempo: lo allontana dai consueti percorsi percettivi, dai grandi binari della strumentalità. E così che le architetture di forme innalzate da Cusani con i frantumi della realtà immortalata dal mezzo fotografico partecipano della struttura ordine-disordine del sogno, eppure hanno un forte impatto di concretezza e coerenza percettive, una forte presa sul reale, sin nelle sue connotazioni storico-sociali, tanto che l'artista ha potuto eseguire una serie di affascinanti lavori ispirati all'ex stabilimento Italsider di Bagnoli, presso Napoli.

Le linee di queste architetture non sono semplicemente bizzarre, arbitrarie o capricciose, ma possiedono un respiro ritmato secondo una logica limpida e solare, benché spesso oscillino in una fluttuazione quasi ipnotica, che suggerisce la metamorfica fragilità della materia acquatica, o s'infrangono in angolazioni prospettiche pericolosamente instabili, annodandosi in forme vertiginose e periclitanti.

La dimensione di sogno riesce a trattenere nelle opere un'ombra, una indecisione, una vacillante incertezza, che dona inquietudine al segno, lo rende non autoritario e gli consente di divenire racconto di un sogno, appunto, e quindi anche di poter dimenticare questo sogno, una volta che sia divenuto esplicito, e soprattutto far dimenticare che di sogno si tratti, oggettivandolo in una bruciante realtà percettiva. Fissare i tratti del sogno significa, per Cusani, misurarlo e insieme smascherarlo: i frammenti oggettuali della realtà fotografica si fondono nel fluire della pittura; la referenzialità della fotografia si scioglie nel passaggio di linee flessuose o taglienti, fluttuanti o minacciosamente immobili. Ciò che resta, come sensazione, è spesso uno stato misto di vagheggiamento e di sospensione ansiosa, che allude a visioni da sempre contenute nella realtà e nella nostra percezione di essa, ma mai vissute o esplicitate. Sono figure insieme esatte e indistinte, intere e frammentarie, solide e fuggevoli, incombenti e lontanissime.

2.

Il moderno è sempre l'oltre.

Baudelaire che si aggira affascinato per i padiglioni dell'Esposizione Universale del 1855, a Parigi, potrebbe essere l'emblema della ricerca artistica d'avanguardia: il moderno pone l'accento sul relativo, sull'effimero, sul metamorfico, affascinato dalla vertigine del nuovo tout court.

Questa febbre del transitorio e del contingente, questa sorta di "dromomania" (Virilio), porta a quella costanza del mutamento che nel post-moderno si trasforma in indifferenza al mutamento, quando le frontiere del nuovo si dilatano fino a perdere di vista l'orizzonte degli eventi, e l'unità della percezione e del sapere si frastaglia in un arcipelago in cui l'unica forma possibile di orientamento pare essere la navigazione a vista ,"miope" (Petitot).

Il flusso delle immagini televisive che ogni giorno invade le nostre case esemplifica bene questa situazione paradossale di metamorfosi indifferenziata e tale da predisporre lo spettatore all'indifferenza e all'an-estetizzazione della percezione delle immagini.

E' questo flusso fermo, proprio perché continuo e ininterrotto, che impronta ormai a sé qualsiasi flusso di immagini vissute. Questo flusso percettivo ormai indistinguibile dal flusso telematico, Cusani lo ha ben presente, e pare costituire un suo bersaglio critico: egli lo blocca, lo frantuma, lo taglia, fissandone fotograficamente degli istanti-frammenti, che ci fanno pensare alle parole di Ernst Bloch: "..in verità la realtà non è mai, neppure nelle epoche e nei capolavori della mediazione più alta possibile, una totalità coerente e priva di lacune. La realtà, al contrario, è sempre interruzione, frammento..."

Tali frammenti ci rendono l'intensità di un reale sia pure ambiguo e sfuggente: bloccando l'immagine con il mezzo fotografico, consegnandola a esatte, ma re-inventate dimensioni, e fissandola su un supporto, in una parola materializzandola, Cusani ne ri-crea la presenza, ci restituisce il senso della materia come presenza solida, che si articola in forme: ciò che la messa in onda del reale tende a fare impallidire - con il predominio della nozione di informazione su quelle di massa ed energia - vale a dire il carattere di concretezza, densità e intensità dell'evento, televisivamente schiacciato a tutto vantaggio della sola comunicazione di esso.

Tali frammenti, rapiti a un divenire vertiginoso e obliterante, fissati nella luce a-temporale della pittura, riportano l'immagine a quella misteriosa, intrigante immobilità, cardine, per millenni, delle arti plastiche.

3.

La iperdiffusione delle immagini tramite il mezzo televisivo porta tendenzialmente all'entropia.

Dario Cusani sfrutta la tensione entropica innescata nella realtà dalle immagini televisive, creando simulacri "referenziali", attenti alle cose, alle forme e ai colori, alle emozioni, ma con la manipolazione foto-pittorica del visivo provoca ed esalta quel differenziale di senso rispetto al flusso delle immagini vissute o tele-trasmesse, quello scarto semantico che da sempre motiva l'esistenza dell'arte.

Continua citazione di un reale già racchiuso in immagini dalla memoria storica, o dissolto dalla marea telematica, la foto-pittura di Cusani opera su di una referenzialità precaria: lavora su immagini "trovate" per caso, un po’ come gli objets trouvés dei surrealisti, o lungamente elaborate nel pensiero e nella memoria.

Usando la fotografia in un duplice procedimento di scomposizione e ricomposizione arbitrarie, crea simulacri di simulacri: il suo figurativismo è comunque riferito a un oggetto pur sempre già trasformato in segno dalla riproduzione meccanica. Una sorta di "figurazione al quadrato", se si vuole tener presente l'espressione di Umberto Eco, che in Postille al nome della rosa parla di "enunciazione al quadrato".

Il visibile che qui ci è offerto è dunque finto - frutto di una fiction, che è insieme finzione e manipolazione, figurazione, creazione, secondo l'etimologia latina di fingere - o ipervero, quando mai fantasmatico e quanto mai concreto: come i sogni. Le immagini di Cusani ci per-suadono, ci attirano verso di loro convincendoci della propria realtà con la forza di una penetrante retorica onirica.Il lavoro di zoom e alterazione delle dimensioni e della prospettiva crea una nuova spazialità, che modifica la percezione dell'immagine. "Far retrocedere la percezione è creare un nuovo senso", scriveva Barthes, e aggiungeva: "tutto deriva da una gradazione delle articolazioni". In questo modo Cusani riattiva la ricchezza delle immagini, allontanando l'automatizzazione percettiva che ne neutralizza l'impatto emotivo. Poi direziona il nostro sguardo e il nostro desiderio verso spazi intransitabili per la logica, facendoci varcare la parete dello specchio che separa il reale dall'immaginario, e penetrare in un mondo senza spessore che appare anche più sensato di quello in cui tridimensionalmente ed effettivamente viviamo. Si aprono così impreviste e improbabili finestre di senso, che mettono a dura prova l'affidabilità del pensiero. In quale spazio dovremmo infatti situarci? E in quale tempo? Si stabilisce un gioco di vicinanza e lontananza. Siamo sospinti verso una zona di realtà veritiera o di de-realizzazione onirica, verso un'illusione più vera di ogni realtà che ci circonda, non vera in senso percettivo o logico, ma perché la intuiamo come luogo di realizzazione di possibilità inattingibili dal mondo.Questo spazio si presenta anche come luogo di anamnesi: memoria di un futuro che indica zone di esperienza possibile che ci sono stranamente familiari pur non avendole mai esperite. A esse tendiamo come a una patria lontana nel nostro avvertirci, quasi gnosticamente, stranieri o in esilio in questo mondo.

Autore: Dario Cusani

Nel catalogo della mostra a Galassia Gutemberg nel marzo '95 raccontavo come ero tornato a Napoli a poche ore dalla conclusione del "G7" a luglio '94 armato di macchina fotografica e di speranza per le voci di mirabili novità che ancora una volta la mia città natale era stata capace di partorire come da un cappello a cilindro. Ne erano scaturiti i lavori che esponevo e che erano la migliore risposta al sogno sognato di una NEA-POLIS. Un sogno rappresentato nei quadri dalla fotografia che riprende la realtà mentre la pittura, la fa diventare un sogno. Un esempio era il "Maschio Imperante", il simbolo di tante dominazioni che sono passate su Napoli senza mai riuscire a dominarla, compresa l'ultima, quella della politica dissennata e disastrosa del dopoguerra che non è riuscita a spezzare la capacità di sognare e dunque di risorgere quando fosse stato necessario.

Da allora in questi venti mesi, il mio viaggio è continuato in altri luoghi, (città e case) raccontati cercando di cogliere lo spirito intimista dei loro abitanti. Sono nati quadri su Genova ('95), la California, con Los Angeles, S. Francisco e Las Vegas ('96) e ora i nuovi lavori su Napoli e Capri. In programma ci sono Bologna, Roma e Milano ('97) con un'anteprima presente in questa mostra napoletana nello spazio magico dell'Archivio Fotografico Parisio gestito dall'amico Stefano Fittipaldi.

Alla città di Napoli ho donato il Maschio Imperante "grande" nella speranza che anche l'ultima "dominazione" sia domata grazie a quei napoletani che hanno creduto nel Sindaco Antonio Bassolino che io ho visto come il "condottiero della rinascita". Il lungo cammino per un ritorno a splendori possibili è dunque ricominciato. Io spero di poterlo continuare a raccontare.

Autore: Paolo Balmas

La pittura, intesa nel suo senso più ampio cioè come produzione di immagini, non è per Dario Cusani né un’attività di esplorazione da sviluppare secondo una logica destinata a chiarirsi solo per fasi successive, né una disciplina da indagare metodicamente in quanto tale, salvo poi esibire i vari momenti dell’indagine stessa quali opere compiute.

La pittura è per lui essenzialmente sguardo attivo, scatenamento dirompente del vedere, luogo d’incontro problematico e teatralizzato tra le pulsioni dell’individuo e gli squilibri del reale.

Un luogo richiuso sì, per convenzione e decoro, entro il proscenio silenzioso di una tela (o di un qualsiasi altro supporto), ma in realtà abitato insieme e fin troppo rumorosamente, da condòmini inconciliabili che si potrebbero chiamare violenza e candore, disincanto e propositività, amarezza e voglia di cambiare.

Condòmini che certamente è stato il pittore a riunire in assemblea ma che ciononostante appartengono al suo vissuto personale non meno di quanto appartengano al soggetto rappresentato, ovverosia al cosiddetto mondo esterno e, in qualche modo, per il suo tramite, all’umanità intera.

È una storia questa che forse, per certi versi, comincia sin dall’infanzia del nostro artista e comunque sicuramente dalla sua prima giovinezza.

Un percorso che, strano a dirsi, non prende l’avvio con matite, pennelli e colori, ma con la tastiera di un pianoforte e una testa piena di musica.

È infatti nei lunghi pomeriggi passati ad esercitarsi nella grande casa paterna affacciata sul golfo di Napoli, o durante le lezioni al conservatorio, che ha cominciato a prodursi il primo nucleo dell’inusuale atteggiamento di Cusani nei confronti dell’espressione visiva.

Possedere finalmente la musica, nel senso di aver imparato a riconoscerne l’architettura, la costruibilità fondata sull’iterazione ed il ritmo, o su cose più specifiche come l’arpeggio, il terzinato, la scala e via dicendo è stato cioè per il nostro un primo stimolo alla visualizzione del proprio sentire, di un sentire magari ancora acerbo e scompensato ma ricco di chiaroscuri e intensissimo sin dagli inizi e soprattutto inestricabilmente legato alla percezione dei luoghi del vivere, degli spazi quotidiani entro cui ci muoviamo e che modifichiamo, per forza di cose, con la continuità stessa della nostra presenza.

La musica, in un certo senso, esce fuori dalle dita come una ragnatela, innerva lo strumento attraversando i suoi tasti, i suoi martelletti, le sue corde ordinate in sequenza, e subito dopo prorompe all’esterno, inonda l’ambiente, si dirige sulle cose e le avvolge senza per questo scuoterle o mutarne la disposizione.

Le cose però e con loro ogni angolo, ogni ombra e ogni raggio di luce e tutte le trasparenze, le opacità, i diaframmi, i riflessi, i lucori, le morbidezze indefinite in cui possiamo articolare un’interno arredato, cominciano a reagire, a concentrarsi, per così dire, sulle emozioni sopite di cui erano già portatrici e ad affidarle alla rete di suoni dinamica e temporalizzata che oramai tutto relaziona e collega.

Bene, è nel momento stesso in cui questa rete cessa di essere invisibile, che Cusani diventa pittore.

Non è un caso difatti che i primi dipinti esposti pubblicamente nel lontano 1987, e poi subito appresso nel ‘90, portino ancora in sé le tracce di questo antico e quasi dimenticato concepimento, di questa unione primigenia e sacrale tra il vedere e il sentire, tra lo sguardo e l’udito coinvolti in unica esperienza emotiva ed intellettuale ad un tempo.

Si tratta di oggetti amati ma anche di volti di persone care nonché della propria stessa immagine che ci si parano dinnanzi scandite e come tatuate da una coorte innumerevole di segni incisivi, di arcaiche decorazioni che quasi neppure vi aderiscono e tuttavia penetrano e vincolano, esaltano e rivelano, formano e sostanziano; segni che, in altre parole, fissano un carattere e paradossalmente costruiscono ciò che già c’è.

All’inizio, abbiamo detto, è presente anche la figura umana, ma ben presto essa si rivela pletorica e abbandona la scena.

Cusani ha scoperto che laddove il guardare vale a mettere in moto un intero ambiente, un teatro che fa tutt’uno con l’eterna replica della stessa rappresentazione, di una pièce la cui “prima”, ammesso che abbia senso cercarla, si perde nelle nebbie della memoria, allora non vi è più bisogno di attori, poiché in realtà non ci troviamo di fronte ad un racconto ma piuttosto abbiamo a che fare con un ritratto.

Nasce così il ciclo dei “ritratti d’interni” che all’inizio sono autoritratti o al massimo “gruppi di famiglia” e poi diventano ritratti di amici, conoscenti, parenti e persino committenti di cui si accetta di celebrare non il narcisismo ma il desiderio di introspezione sia pure guidata e per così dire specchiata nell’osservazione inclemente e tuttavia partecipe di un altro, di chi ci conosce bene e può individuare e descrivere anche ciò che noi non sappiamo più scorgere.

Dai ritratti d’interni ai “ritratti di città” il passo è breve e con il nostro discorso ci arriviamo subito, non senza aver prima notato, però, che dal momento in cui Cusani abbandona la figura umana nelle sue rappresentazioni di ambienti domestici, come per una scissione chimica egli comincia anche ad occuparsi di essa in una sua ricerca collaterale e solo apparentemente marginale.

Si tratta di una serie di fotocollages denominata umoristicamente, (in occasione della prima mostra ad essi dedicata) “Ritratti a pezzi”.

Il nostro artista qui comincia ad utilizzare la ripresa fotografica non più soltanto come supporto di riferimento, ma proprio come unico e solo materiale da manipolare.

Di ogni fotografia vengono stampate più copie che poi vengono ritagliate secondo griglie di quadrati di varia grandezza, si ottiene così qualcosa di simile ad un insieme di tessere musive che vengono successivamente montate seguendo ancora una volta un’architettura fatta di iterazioni e isomorfismi che può ricordare la struttura di una composizione musicale.

L’intento è quello di partire da un dato incontrovertibile, (ciò che la camera ha ripreso e dunque ha un rapporto biunivoco e meccanico con la realtà) e ciononostante di riuscire egualmente a selezionare i soli caratteri di una persona che valgono a rendere l’immagine interiore che l’artista se ne è fatto, ciò che egli accetta o non accetta, desidera esaltare o rimuovere.

La quadrettatura vuole essere ad un tempo uno strumento il più neutro possibile e un riferimento allo spirito positivo di tanta astrazione costruttiva degli inizi del 900, il risultato invece è immancabilmente sorprendente poiché, pur nella elementarità del metodo che quasi rasenta la sprovvedutezza, ci troviamo egualmente ogni volta di fronte ad una rassomiglianza che riconosciamo come tale ma sul cui funzionamento sappiamo dire ben poco.

Questa breve parentesi ci torna utile anche per impostare il discorso sui già citati ritratti di città (“Spaesamenti” come recita il titolo di un’altra mostra) in quanto con essi Cusani rende sistematico l’incontro tra fotografia e pittura già tentato sporadicamente in alcuni lavori precedenti.

Se nel ritratto di un salotto o comunque di una camera arredata è possibile assecondare con ironia e curiosità i contrasti tra questo o quell’oggetto, questa o quella suppellettile facendo di esse delle entità personali dotate di una vita propria e lasciando magari che si accapiglino e se le diano di santa ragione come personaggi di un cartoon, per quanto riguarda uno spazio urbano, in cui al posto di mobili e oggetti troviamo edifici, monumenti, piazze e scorci viari, un simile procedimento risulta ad evidenza inadeguato.

La città infatti non solo è una realtà assai meno stabile e assai più stratificata di una stanza o di un appartamento, ma non rappresenta a rigore neppure le abitudini e il modo di vivere soltanto di persona o di un nucleo familiare, essa incarna piuttosto le usanze e la visione del mondo di un’intera comunità intesa non solo come l’insieme degli abitanti che insistono in un determinato momento su di un determinato territorio, ma anche come quello stesso insieme continuamente alle prese con le testimonianze lasciate da coloro che non ci sono più e che possono averci abbandonato sia da poco che da molto tempo, sia ieri che cento o mille anni fa.

Ecco allora che diviene fondamentale la dimensione del simbolo.

Un teatro, una chiesa, una fontana o le quinte di una strada di per sé presi, nella dimensione cui ci riferiamo, sono ancora soltanto segnali che l’artista deve riuscire a trasformare in segni, ovvero sottomettere ad un codice di lettura che suggerisca a tutti lo stesso significato o comunque un senso globalmente univoco.

Cusani ha risposto a questa esigenza dapprima facendo per ognuna delle città su cui è intervenuto e alle quali ha dedicato una mostra (Napoli, Genova, Roma, Milano, Spoleto, Bologna e Ravenna) una vera e propria campagna fotografica e poi ricombinando il materiale raccolto in modo da ottenere delle icone il cui valore metaforico fosse palese e succoso, una specie di slogan o di aforisma capace di condensare in maniera semplice delle considerazioni che tutti coloro che vivono all’interno di una certa realtà, ma anche coloro che ad essa si avvicinano da fuori, possano condividere o almeno prendere seriamente in considerazione riconoscendovi un problema o una questione effettivamente pregnanti.

Certamente le immagini nate da un consimile procedimento pagano in qualche modo un prezzo per raggiungere il risultato voluto, un prezzo che è quello della loro prossimità al luogo comune o al detto popolare, ma è anche vero che fin qui hanno tutte saputo riscattarsi proprio attraverso il potenziale fantastico che da esse si sprigiona e per il quale si è rivelato fondamentale l’apporto della pittura.

Di una pittura che non è stata chiamata in causa soltanto come duttile strumento di rappresentazione usato per completare o convogliare il riporto fotografico in direzione del significato illustrativo perseguito, ma è stata anche adoperata come mezzo espressivo atto a creare atmosfere oniriche, dimensioni emotive, forme di narrazione complessa e coinvolgente così come accade nella miglior tradizione del paesaggismo classicista, del vedutismo romantico e della scena visionaria surrealista.

Il tutto, peraltro, con una marcia in più costituita dal delizioso effetto di contrasto non tanto tra il reale (la foto) e l’immaginifico (la pittura) quanto tra due diverse modalità dell’immaginifico stesso.

Un contrasto-rilancio reso possibile da un’utilizzazione sempre più disinvolta della fotografia stessa la cui conclamata oggettività nelle mani del nostro artista, che divide, taglia, moltiplica e riassembla, si trasforma regolarmente in atto di volontà, in ribellione aperta nei confronti di ogni forma di fruizione distratta, di ogni passività percettiva ed emozionale.

Inutile dire che Napoli, come città in cui Cusani ha vissuto più a lungo e che meglio conosce anche dal punto di vista del disagio psicologico e morale che essa gli ha procurato nei lunghi anni di malgoverno e di insipienza politica che ne hanno stravolto il carattere prima della rinascita in corso, è stata il primo soggetto di questo esperimento ben lungi dall’essere concluso ed aperto ad ulteriori sviluppi come una sorta di Mille Miglia della cultura.

Importante invece notare come ancora Napoli rappresenti ora il trampolino di lancio di un nuovo e più ambizioso esperimento: quello di fare il ritratto non più ad una realtà locale sia pure in evoluzione, ma all’intera società di oggi attraverso eventi e situazioni che proprio il capoluogo campano sta attraversando.

Siamo così alla presente mostra significativamente intitolata “Dal Ferro al silicio”.

Ancora una volta come si vede sin dal titolo stesso ci troviamo volutamente di fronte ad una tematica esplicitata in maniera semplice e quasi scontata, non per mancanza di immaginazione, ma in omaggio ad un preciso desiderio di comunicazione allargata che sempre di più sta diventando uno degli obbiettivi critici del nostro autore, protagonista fra l’altro di diversi esperimenti di contatto diretto con un pubblico che non sia solo quello smaliziato, sofisticato e ahimé anche poco numeroso del circuito consolidato dell’arte contemporanea.

L’idea iniziale nasce da una serie di sopralluoghi che Cusani ha potuto fare qualche anno fa allo stabilimento siderurgico di Bagnoli già abbandonato ed in attesa di essere definitivamente demolito.

In questa occasione il nostro artista è rimasto colpito non solo e non tanto dalla visione pure estremamente suggestiva degli enormi impianti in questione di colpo trasformatisi in mostruosi grovigli di ferraglie e mastodontici agglomerati di macchinari di cui riesce difficile persino ricostruire col pensiero la pregressa funzionalità, quanto dalla terribile evidenza dimostrativa che tutto questo assume nei confronti di una problematica che tutti conosciamo fin troppo bene per essere continuo tema di discussione e per così dire di propaganda epocale.

In altre parole una cosa è sapere che il computer (la nuova tecnologia del silicio) ha reso obsoleta un’economia fondata su grandi impianti di produzione materiale come una centrale in cui si lavora il ferro e l’acciaio, una cosa è vedere con i propri occhi l’effetto devastante di questo passaggio, la dura verità di una immensa costosissima installazione ridotta ad un rottame inservibile che solo per essere smantellato già pone problemi di organizzazione che superano di gran lunga la capacità immaginativa dell’uomo della strada.

Lungi dal volersi opporre velleitariamente ad una trasformazione irreversibile e allo stesso modo del tutto estraneo ad ogni forma di ostracismo preconcetto nei confronti delle nuove tecnologie virtuali, (delle quali peraltro ha cominciato a servirsi con indubbia precocità nel suo lavoro), Cusani ha sentito dinnanzi all’esperienza di cui si è detto il bisogno di verificare se in qualche modo l’arte possa farsi testimone di una transizione che comunque non è e non sarà indolore e che l’intera popolazione di Napoli, chi per un verso chi per un altro, sarà chiamata ad “elaborare” oltre che sul piano dell’adattamento logistico anche su quello dell’adattamento psicologico.

Certamente una mostra o un ciclo di opere non possono assumersi un compito strettamente politico o peggio ancora degli obbiettivi di educazione sociale, ma possono e anzi debbono tener presente quella che è sempre stata una delle principali funzione della ricerca estetica: fornire nutrimento all’immaginario collettivo per favorire quel processo di messa in forma del mondo e degli eventi senza del quale non vi è comunicazione spendibile e dunque neppure interazione effettiva ed efficace ai fini dell’assunzione di consapevolezza nei confronti di mutamenti piccoli e grandi che comunque riguardano un’intera comunità.

È questa la ragione per cui la mostra “Dal Ferro al Silicio” si presenta con un taglio che assume volutamente dei connotati didascalici e quasi mima altri tipi di mostre di interesse più prettamente scientifico divulgativo.

Vi troviamo così, innanzitutto, una grande gabbia di tubi d’acciaio che accoglie e delimita la sezione dedicata precipuamente a Bagnoli ovvero al “ferro”.

Su questa struttura che attraversa l’intero spazio a disposizione e ricorda volutamente un cantiere sono montati nell’ordine: una serie di gigantografie di foto storiche dell’impianto cui la stampa in bianco e nero fornisce una aura di lontananza e, ad un tempo, di documentatività ideologicamente datata, un certo numero di proiettori che diffondono immagini a colori della fabbrica in attività (video e diapositive) e infine l’intero ciclo dei dipinti per i quali Cusani si è ispirato allo smantellamento della realtà industriale in oggetto adottando la consueta tecnica della ripresa fotografica manipolata ed interpolata con la pittura.

La sezione dedicata al silicio, ovvero alle nuove tecnologie è affidata invece ad un serie di installazioni: “Siam sei piccoli topolin...” dedicata al tema del passaggio dalla documentazione cartacea di immagini e testi a quella elettronica, ma anche all’ambizione della scienza di sostituirsi alla religione; “Un sogno su una nuvola” tesa ad affermare come l’immaginazione resti il motore dell’essere umano anche laddove si applichi ai prodotti delle tecnologie più avanzate e idolatrate e “Imago Musica” interessata a riflettere sulla difficoltà che l’uomo, e l’artista in particolare, incontra comunque, qualunque sia la tecnica adottata, a volare alto inseguendo i suoi sogni e i suoi desideri più nobili.

Un’analisi approfondita delle opere qui elencate, (peraltro legibilissime nonostante i numerosi riferimenti ad vissuto intimo se non addirittura intimistico), come si sarà capito, non può certo essere tentata in questa sede, non per questo tuttavia possiamo esimerci dal fare ancora, nello spazio che ci rimane alcune considerazioni di carattere sia critico che esegetico.

Diremo dunque che, se per quanto riguarda i quadri essi rappresentano, in un certo senso, non solo uno dei massimi risultati raggiunti da Cusani quanto a suggestione visionaria ma anche una sorta di summa delle ricerche precedenti, con le installazioni, tutte ampiamente sostanziate da una presenza di apparecchiature né pletorica né meramente impaginatoria, egli conferma quanto già indicato da tutti coloro che si sono occupati del suo lavoro quale caratteristica più convincente di esso: una straordinaria capacità di far coesistere sintesi e comunicabilità, pregnanza semantica e innovazione linguistica, sincerità di intenti e vocazione affabulatoria.

Autori: Paolo Balmas e Gianluca Marziani

Intervista a Dario Cusani a cura di Paolo Balmas e Gianlcua Marziani

Balmas: Come mai la California?

Cusani: come tutte le cose della creatività si realizzano molto per caso. I lavori sulle città sono partiti con Napoli a fine '94. Piombai lì a manifestazione appena conclusa per verificare tutte le novità realizzate per l'occasione prima che potessero essere "distrutte" (merito di Bassolino se ciò non si è verificato!). Rimasi commosso dalla bellezza e soprattutto dalla possibilità di rinascita dall'ennesima dominazione (anche se a fatica). Poi l'anno scorso sono stato a Los Angeles per una mostra di pittura e siccome la California ha un grande fascino per tutti il mito West-Cost dell'America, allora ho pensato a questi lavori scattando foto a Los Angeles, Las Vegas ( che non è California ma ad essa è legata come un cordone ombelicale), San Francisco e San Diego con l'intenzione appunto di creare dei quadri da esporre, con l'accordo dell'Istituto Italiano della Cultura in America e in particolare nelle città che questi lavori rappresentano, perché è certamente più forte la valenza per chi vive e conosce i luoghi ritratti, anche se i miei lavori tendono ad andare al di là della rappresentazione pura e semplice della città, creando una visione dilatata dei luoghi.

Balmas: cosa sono per te le città? Insisti spesso su questo tema delle città. Mentre la tua ricerca partiva qualche anno fa dal tema degli interni domestici.

Cusani: il collegamento è strettissimo, anzi è l'altra faccia dello stesso aspetto. L'interno visto come rappresentazione intimista, come ritratto delle persone: ho cominciato riprendendo il mio salotto di casa per l'esperienza vissuta da bambino dove il salotto di casa era lo specchio della rappresentazione del vissuto, cioè di se stessi, quindi il ritratto delle persone dove, si accumulavano i ricordi, la tradizione, cioè quello che si era ricevuto in eredità dai genitori, dai nonni e quindi qualcosa che continuava la propria identità. L'interno visto come rappresentazione dell' io, con l'inserimento di tutte le problematiche esistenziali che viviamo e che spesso ci opprimono. Queste le ho rappresentate con prospettive assolutamente fuori da qualsiasi logica che creano a questi oggetti un effetto come di navigare nello spazio, comunque di essere sempre in movimento, instabili : questa per me è la rappresentazione della condizione umana. Dall'interno di casa, quindi del mondo personale, sono passato alla città, che è il vissuto di più persone ma che comunque è un vissuto fortemente radicato nella cultura della propria storia. Quindi il passaggio dagli "interni" agli "esterni" è stato assolutamente breve e immediato. Ho visto la città (lo spunto è partito da Napoli) come rappresentazione della storia di una popolazione, quindi di una grande famiglia che è legata da una cultura storica fortissima e che viene trasmessa alle singole persone: quindi ritorniamo all'io, all'interno del singolo. Sono partito da Napoli che è la mia città che conoscevo ovviamente come nessun'altra, e ho poi verificato la capacità di cogliere l'elemento esistenziale in altre città che non conoscevo o che conoscevo pochissimo: questa è stata una sfida che mi ha stimolato moltissimo. Arrivare a Genova, com'è capitato per la mostra che ho fatto l'anno scorso e dover, fotografare, cogliere l'essenza del vissuto di una città che conoscevo pochissimo, è stata una sfida, forse presuntuosa, ma che mi ha eccitato moltissimo. Cogliere la componente umana per me è determinante, al di sopra delle cose: gli oggetti ,per esempio di casa, non hanno in sè nessun valore se non come ricordo del vissuto, cioè da chi l'hai ricevuto, dove l'hai comprato e in quale occasione, chi te lo ha regalato: quindi sempre legato a persone, eventi e a fatti accaduti. Ecco allora che la città, il palazzo o una piazza sono solo un simbolo come il Maschio Angioino di Napoli che ho chiamato "Maschio imperante" identificandolo con le dominazioni di quella città nella storia, dominazioni che poi il popolo napoletano ha sempre superato, perché le dominazioni sono sempre passate e il napoletano è rimasto con la sua storia, nel presente. Ecco quindi l'elemento fortemente umano.

Balmas: che ruolo ha la fotografia in questo tua sorta di sfida. La fotografia in genere si porta appresso questo connotato di obiettività comunque di riporto in qualche modo meccanico che certamente anche nell'atto stesso dell'inquadratura già viene manipolato, ma mi sembra che nel tuo caso la manipolazione della fotografia diventa una manipolazione molto forte e vedo che anche in questi ultimi lavori la pittura, ha preso non dico il sopravvento ma senz'altro diciamo sembra che abbia ricevuto stimoli dalla fotografia e sia diventata qualcosa di, molto forte non dico aggressivo ma senz'altro prepotente.

Cusani: la fotografia è la realtà, per quanto la si possa modificare con l'inquadratura, è certamente la ripresa della realtà. La realtà è qualcosa che ci portiamo addosso, che molto spesso ci imbriglia, e con la quale abbiamo un rapporto di odio e amore come con qualcosa della quale non possiamo farne a meno ma che vorremmo diversa. Ecco che la fotografia rappresenta l'elemento inesorabile della realtà, che viene da me manipolata con il fotocollage per creare delle dilatazioni spaziali nel tentativo di dare una dimensione un po' cosmica alla città per farla uscire dal suo piccolo, dalla sensazione di grettezza del quotidiano nella quale purtroppo le città di oggi ci stanno sempre più imbrigliando, spingendoci in un microcosmo. Il fotocollage crea una funzione di spazialità, di allargamento, quasi il bisogno di uscire al di fuori pur rimanendo sempre nella realtà: la pittura inece è il sogno, rappresenta cioè tutta quella parte attraverso la quale noi vorremo modificare questa realtà della quale però non possiamo fare a meno. Si tratta quindi di un gioco di rimando tra sogno e realtà e tra realtà e sogno che si inseguono, entrambi perchè non possono fare a meno l'uno dell'altra, si amano e si odiano come marito e moglie. Il sogno è affascinante ma ci sgomenta perché è qualcosa che non riusciamo a concretizzare, la realtà è affascinante di per sé ma vorremmo fuggirla in ogni momento perché troppo spesso ci imbriglia e ci costringe alle negatività. Credo che la mistura di questi due elementi crea il divenire dell'esistenza umana.

Marziani: Ho notato nei lavori con fotografia e pittura che c'è un uso della cornice molto forte, volevo chiederti perché l'uso di questa scelta soprattutto nel rapporto con la pittura che è senza cornice quindi tende ad espandersi con l'ambiente, a creare una dialettica diretta con l'ambiente, invece quando c'è la foto in collage con la pittura c'è un lavoro di presenza forte della cornice, volevo sapere il perché di questa scelta in che termini.

Dario: I miei lavori sugli "interni" avevano avuto per un certo periodo un elemento sulla cornice, cioè la pittura che usciva fuori dal quadro dato che la cornice è per me un elemento di costrizione, un limite per il quadro che non dovrebbe esistere. Ovviamente la fantasia ti può consentire di immaginarti il proseguimento di un quadro in tutte le direzioni: quindi questo mio tentativo di dipingere parti del quadro che sforassero sulla cornice confermava questa convinzione. Ora la cornice non è più un elemento così determinante, in quanto forse ho superato un po' questa ansia di rompere i limiti e gli schemi che una cornice ti da. Invece oggi la cornice ha un ruolo molto importante per un diverso motivo, perché può essere un elemento di contrasto con il lavoro. Come è avvento con il quadro "Grattacielo" su San Francisco che presento in mostra, che ha rappresentato lo spunto per il grande quadro che ho chiamato "Twin", cioè gemello. Si tratta di un gioco perchè questo lavoro, che è un fotocollage con pastello, quindi una tecnica povera, l'ho montato in una cornice dorata molto impegnativa con un evidente intenzione ironica proprio per creare il contrasto con una rappresentazione assolutamente di poco "valore", come può essere la fotografia e il pastello che in genere rappresenta l'abbozzo di un lavoro. Ma questo lavoro ha una valenza per me molto importante perché dal quadro su San Francisco è nato "Twin" (gemello) che è un lavoro autobiografico, nel quale questo grattacielo, che nel fotocollage è raddoppiato , diventano due sdoppiati che nascono da un unicum. Un tema molto forte reso ancora più evidente dalla diversa luminosità dei due piani che rappresentano l'elemento temporale. Mi è sembrato ironico, divertente e nello stesso tempo importante inquadrare con una cornice di grande ricchezza, che si potrebbe mettere intorno ad una quadro importantissimo che vale un sacco di soldi, un lavoro che, pur essendo un abbozzo, per me è stato uno spunto molto importante sempre sul piano delle motivazioni intime ed esistenziali.

Marziani: ho notato che c'è una forte presenza della notte e invece al contrario un'assenza predominante dell'uomo quanto meno in modo esplicito. Volevo chiederti queste due cose appunto. Cusani: Questi sono due elementi assolutamente centrati nel mio lavoro: la notte è certamente un momento di grande contrasto, il momento del buio e della paura. Addormentarsi per molti (e anche per me lo è stato) significa chiudere con il mondo dell'esistenza e del reale, e non sapere poi a cosa andare incontro. Il buio e la notte sono il momento della solitudine, della grande riflessione o anche delle angosce (non per nulla è il momento in cui sopraggiunge più spesso la morte). Però il buio e la notte rappresentano anche il momento del sogno, cioè il momento in cui riesci a liberarti di tutti i legami del conscio che inesorabilmente ti vincolano per riuscire ad ascoltare la parte più nascosta di te che viene fuori senza nessun comando, perché il sogno è liberatorio proprio per questo. Quindi elementi sempre contrastanti come è un po' la mia problematica esistenziale tra quello che ti fa paura e la paura stessa che ti crea di emozione: una eccitante adrenalina . Io ho un'esperienza vissuta da ragazzino quando ho fatto delle cose molto rischiose, anche con sports molto rischiosi che mi procuravano una grandissima paura, accettando però la sfida di superarla: la paura della paura , alla fine è una sensazione di grande felicità. Lo stesso discorso vale per il buio e la notte. Per quanto riguarda l'assenza della figura , ciò è assolutamente vero. La figura come rappresentazione fisica è assente dai miei quadri perché i quadri sono essi stessi la rappresentazione dell'interno delle persone, quindi del loro momento esistenziale. Ecco che sarebbe quasi un controsenso rappresentare una figura mentre tutto il quadro è la rappresentazione del suo interno. Così, come per gli interni, anche questi esterni di città sono la visione attraverso gli occhi di chi guarda dentro se stesso, una visione che va a rifrangersi internamente alle persone, a me che li ho fatti e spero a chi li guarda. Ecco che la figura non è presente perché guarda dal di fuori dentro se stessa. In più c'è un'altra verità: é che la figura mi fa molta paura, la sua rappresentazione è qualcosa di talmente rischioso per la banalità nella quale puoi cadere, essendo stata rappresentata in modi assolutamente grandiosi nella storia dell' arte che per trovare un modo di rappresentarla che non sia dejà vu è un'operazione estremamente difficile, è qualcosa alla quale tendo. Ma la solo idea di poterla banalizzare senza riuscirle a dare un valore assoluto come essere umano, per ora mi fa tenere molto alla lontana.

Balmas: Io so che per te la musica è molto importante e tu lavori con la musica, la musica entra nel tuo lavoro di pittura o è solo un'altra passione.

Cusani: la musica è sempre stato un elemento fondamentale perchè io nasco come musicista (avrei voluto fare il direttore d'orchestra), suonavo il pianoforte. Poi però, per problemi scolastici a 14 anni ho dovuto interrompere ed ho sviluppato la pittura per la quale avevo inclinazioni istintive, come forma di creatività. Ma la musica è rimasta il grande sogno irrealizzato, ho cercato attraverso i lavori pittorici di rappresentala non come ha potuto fare Arman con gli strumenti musicali rotti quindi attraverso una rappresentazione esteriore, ma attraverso un elemento più intimista e cioè l'elemento del movimento. La musica ha una evoluzione matematica e quindi ha un suo ordinamento temporale: ovviamente nella pittura l'elemento tempo, che è basilare per la musica, non esiste e quindi ho sempre cercato di creare questo elemento temporale attraverso il movimento che nella pittura è molto difficile da realizzare. La musica come veicolo di eruzione delle intimità, ti consente delle forme di esplosione uniche: il problema e che avrei bisogno di un supporto che consenta oltre alle due dimensioni di un quadro anche della quarta, il tempo, perché le tre dimensioni sono delle strutture fisiche, la quarta dimensioni è della musica. Comunque la musica sta andando avanti come forma di composizione: io vengo dall'esperienza della musica classica e quindi in quel settore sto sviluppando la mia ricerca, anche attraverso gli strumenti che la tecnologia del computer ha creato per la scrittura musicale. Conto di arrivare al supporto del video che consente di affiancare l'immagine con l'elemento tempo nel quale si può inserire la musica. Il video è certamente il supporto del futuro che per me nasconde un grande sogno, quello del cinema, nel quale c'è l'elemento racconto che bene si addice a quello che ho sempre cercato di fare: il racconto dell'uomo come perno di tutto il sistema dell'esistenza, intorno al quale ruota tutto. Sono tutti progetti per quando sarò grande, ma io credo che per crescere c'è sempre un'occasione.

Marziani: ti volevo chiedere... questo spazio per struttura e concezione particolare comunque diversa da certe logiche e certi canoni espositivi: come relazioni il tuo lavoro e come sei relazionato te con il tuo lavoro in questo spazio dell'Explorer.

Cusani: la proposta di Pino Molica di esporre qui all'Explorer, che conoscevo già come spazio, è caduta ad hoc ed ho immediatamente pensato a questi lavori sulla California perché ho visto a Los Angeles l'Hard Rock Caffee che non è una galleria ma un bar ristorante assolutamente fantastico perché è il simbolo dell'America degli anni '60 e l'ho trovato di una vitalità enorme, Condivido l'idea dell'Explorer che anche esso un caffee ma anche galleria e la proposta è stata da me accolta con interesse perché io ho una mia ferma convinzione: le gallerie ed i musei (così come sono) sono dei cimiteri! Ho realizzato a questo proposito un lavoro (che espongo) sul Moca, il museo di arte contemporanea di Los Angeles che l'ho titolato "Moca, il sepolcro". E' una immagine di questo edificio dove si vedono all'interno dei lumini cimiteriali mentre all'esterno è su un isolotto, circondato dai pescecani. E' la rappresentazione della cultura e dell'arte che sono isolate dal mondo attuale, famelico di ben altre finalità , ma nello stesso tempo è la visione del museo (e della galleria) come espressione cimiteriale dell'arte, essendo io convinto che l'arte invece deve andare verso le persone. Io faccio lo sforzo di fare dei lavori che raccontano dell'esistenza delle persone, e per me è impensabile che questi lavori finiscano in luoghi che vengono frequentati quasi come dei simulacri da persone che rimangono molto distanti e che ne hanno una visione assolutamente lontana e soprattutto non "vissuta ", nel senso proprio palpabile. Invece una galleria che è un caffee da l'opportunità a chi la frequenta, di poter ricevere e di scoprire che cosa è l'arte. Secondo me la galleria-caffè o la galleria-libreria (e similari) è lo strumento positivo di attualizzare il nostro mestiere che si sta sempre di più rannicchiando in un angolino morto per rimetterlo in gioco invece nel vissuto quotidiano delle persone. Balmas: per concludere, comunque ogni tua mostra risulta diversa da un'altra diciamo questo fatto di incentrare mostre sulle città sui luoghi che tu visiti e che in qualche modo cominci a contattare con la fotografia ti porta ad avere esperienze sempre diverse. In particolare questa mostra della California in che cosa è diversa dalle altre in che cosa ha scostato la tua sensibilità e come ha arricchito la tua operatività. Cusani: E' inevitabile che la conoscenza allarga l'esperienza e quindi la tua capacità di percepire il tutto. Il viaggio in California ha aggiunto delle cose nuove e certamente di grande forza. L'America è un paese di dimensioni mega-galattiche ma quando parlo d'America parlo della somma delle persone che questa America la fanno ogni giorno, l'hanno fatta nel passato e la faranno sempre. La sensazione che tutto possa essere un gioco, che tutto possa essere finalizzato al ludico al piacere del vivere è certamente forte però nello stesso tempo l'America è un paese che fa le cose con estrema professionalità ,con grande democrazia e con grande, direi, durezza perchè non consente libertà che poi diventano costrizioni per gli altri. Las Vegas da questo punto di vista è stata un'esperienza incredibile: il mondo del kitch, del finto, talmente kitch e talmente finto da trovare un'assoluta giustificazione, un equilibrio perfetto, tutto finalizzato al piacere dello stare, in un altro "mondo", perché lì non esiste nessuna problematica , esiste solo il problema di provare felicità. Ovviamente la sensazione che ho avuto é che siccome la felicità senza l'infelicità non esiste, dopo tre giorni ne hai le palle piene e quindi devi scappare alla ricerca della tua dose d'infelicità perché quella felicità è diventata quasi infelicità e dovresti aumentare dosi quotidiane di felicità, il che non si può. Allora ecco che alla fine ti ributti nel casino quotidiano dei problemi, perché risolvere i problemi è il grande contrasto che c'è tra felicità e infelicità. Ecco, l'America e la California in particolare, da questo punto di vista mi è sembrata un paese che tendesse a ridurre questo contrasto tra felicità ed infelicità, forse perché non viene dall'esperienza di noi europei, dall'esperienza della religione cattolica che basa tutto su una colpa dalla quale ci dovremmo liberare, non ha lo spessore del vissuto e della storia degli europei, così forte sulle spalle di ognuno. Da questo punto di vista l'America è un paese che guarda avanti, al futuro con una forza sovrumana rispetto a noi italiani, a noi europei, ( dall' America ho accomunato molto tra loro gli europei) che diamo una grande forza e una grande peso alla conservazione dell'esistente che è il frutto di tutto il nostro passato. La California in questo poi è come il Far-West , ancora di più terra di pionieri quindi terra di conquista per la ricerca del benessere nel futuro : credo che impersonifichi tutto ciò in modo assoluto e così ho cercato di rappresentarla in questi lavori. Questa è l'anima che ho colto e che colgo in genere quando vedo i luoghi e che cerco di trasferire nei lavori e ogni volta è un'esperienza nuova che si aggiunge. La mia conoscenza delle diverse realtà umane e storiche è limitata, mi affascinerebbe moltissimo l'oriente, e l'India in particolare, tutte realtà sicuramente sconvolgenti che da un certo punto di vista mi fanno anche paura ma che aggiungerebbero tasselli per trovare quell'unicum assoluto di cui può essere fatto l'essere umano tipo. Anzi l'esistenza umana tipo che poi si conclude tra le due parentesi della nascita e della morte: in mezzo c'è tutto ciò che da valore all'esistenza, ma che nello stesso tempo non ha nessun valore.

Autore: Ela Caroli

La storia del mondo è come una scacchiera immaginaria sulla quale invisibili giocatori muovono a piacere pedoni, alfieri, torri, regine, re. E’ un planisfero metafisico in cui la visione cosmica supera ed annulla la percezione reale Ecco come ci si può figurare in un delirio onirico, il labirinto quotidiano fatto di eventi grandi e piccoli, cose animate e non , e di uomini che agiscono incontrandosi e scontrandosi.

Il grande scrittore e poeta Jorge Luis Borges non dava all’ uomo più dignità di un qualsiasi essere errante in perenne inquietudine sulla terra, in un panorama mistificante di città, campagne, rovine antiche pronte a far precipitare chiunque nello smarrimento e nell’ alienazione. “Noi la indivisa divinità che opera in noi, abbiamo sognato il mondo. – scriveva il grande argentino – lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma abbiamo messo nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto”.

Spazi impraticabili architetture impossibili, prospettive deragliate, ecco come la costruzione del mondo si ripropone, in tutta la sua improbabilità, ma nelle sue preesistenze storiche e monumentali, nel lavoro di Dario Cusani. Tutto è volutamente artificio: nei dipinti di grandi dimensioni spesso l’utilizzo della tecnica del fotocollage concorre a smembrare la composizione ponendo gli elementi di essa in una moltiplicazione dello spazio, in un frammentato instabile equilibrio che trova una sua logica intrinseca nel senso della partitura musicale.

Come silenziosi componimenti, pezzi di luoghi vissuti, interni ed esterni, “Luoghi della memoria”- com’è il titolo di quest’ ultima mostra -si rifrangono in echi che si moltiplicano a distanza all’infinito. Illusori e immaginari i labirinti mostrano spazi sempre più complessi. Alla base c’è il ricercatissimo apparato figurativo e simbolico del barocco, presente anche quando lo squarcio di realtà rivissuto ed elaborato dall ‘artista napoletano, rimanda all’antico, al rinascimento all’ottocento.

La città trasuda di testimonianze storiche stratificate e possenti anche nei luoghi dove il degrado urbano le soffoca e le nasconde alla corretta fruizione, chiese sconsacrate, fontane senz’acqua, statue intorno alle quali automobile i, cassonetti e sacchetti di spazzatura si mostrano in tutta la loro iattanza.

Allora Cusani “coglie” improvvisamente il monumento, oggetto della sua attenzione, per scomporlo e ricostruirlo, come in un gioco di mattoncini di plastica Lego o di tasselli di cartone di un puzzle. E la rappresentazione si fa sogno, delirio. Rivivono cosi come liberati dalle loro prigioni, i fantasmi del passato che vagano e si concretizzano in ogni luogo, in ogni angolo dell’universo.

E l’universo non è altro che una biblioteca: la biblioteca di Babele, fatta di un numero indefinito di gallerie dentro le quali gli scaffali e gli specchi moltiplicano lo spazio e una scala a spirale in basso s’inabissa, in alto s’innalza nel remoto. Lì sono contenuti tutti i libri. Lì c’è il catalogo dei cataloghi; a Borges non sembrava inverosimile l’esistenza, in un certo scaffale dell’universo, del libro totale, e si consolava al pensiero che forse un uomo, anche uno solo, e in un tempo magari lontanissimo avesse potuto leggerlo.

E le opere di Cusani – dove l’elemento architettonico urbanistico è riconoscibile e voluto – sembrano illustrazioni di questo libro totale dove forse si mescolano il mito e la storia , legenda e realtà, concreto e immaginario. Finzioni, dunque e artifici: ma più “vere” del reale. E infatti qui vediamo una fantasmatica sagoma del fronte principale di Castelnuovo riprodotta come un panno svolazzante ad asciugare, appeso a mollette che lo trattengono ad un filo. Un icona importante della città monumentale rivissuta con ironia, come se fosse precaria ed evanescente, un fondale di teatro? In altri casi, l’icona e trasfigurata in modo ancora pi surreale per diventare parte di un animale mostruoso.

La “casa della vita” di Curzio Malaparte a Punta Fasullo, lo scoglio di Capri che si protende nello stesso mare dei faraglioni è scomposta in un fotocollage fino a diventare una zampa di un’isola – dinosauro, minaccia e superba come a volte la magnifica capri sa diventare. Montaggio e smontaggio, ordine e disordine convivono per intrappolare l’incauto osservatore.

Così il” tromp’ l’oeil” del portone aperto, quello storico portone chiuso di Palazzo Serra di Cassano che Cusani apre per mostrare però una Napoli lontana con il suo Palazzo Reale e una mannaia che cala minacciosa pronta a colpire. Una metafora della sfortunata rivoluzione del 1799 e della decapitazione di Gennaro Serra”performance” ideata per l’inaugurazione della mostra Cusani commemora proprio il sacrificio si serra con l’ascia che il boia cala violentemente sul ceppo ma non riesce a spegnere la luce degli ideali anti-oscurantisti dei patrioti di ogni tempo e paese che combattono contro i regimi dittatoriali e totalitari.

“Nella storia - ha scritto Benedetto Croce - è grandissima quella che potrebbe dirsi l’efficacia dell’ esperimento non riuscito specie quando vi si aggiunga la sconsacrazione di un eroica caduta”. E l’esperienza breve della rivoluzione fallita nel 1799 a Napoli per il sacrificio dei patrioti che vi caddero assurse alla dignità di un grande evento storico. Ricordarlo anche al di là delle circostanza celebrative trasferendolo nel linguaggio dell’arte significa non sottrarsi al peso autorevole di quell’ eredità di valori e di civiltà.

Autore: Barbara Martusciello

A volte le contrapposizioni si risolvono in giustapposizioni; l’Interno non è sempre il contrario di Esterno: ne è la continuazione. Più meditata, personale, introversa, ma faccia di una stessa medaglia. Gli ambienti che Dario Cusani dipinge, anzi rivela con la sua pittura, sono quelli della sua interiorità; luoghi dell'anima ove si agitano sentimenti e la memoria confonde passato e presente. Ambienti - forziere che isolano dall'esterno, quando questo diventa insostenibile, troppo pieno di tutto, tanto da collassare o diventare indifferente. Ambienti - prigione dai quali fuggire per ristabilire un contatto con la realtà del quotidiano, perché a volte star soli con se stessi, a "nudo", fa più male. Allora, come in vasi comunicanti, si riequilibrano i livelli: l'Interno si apre, o l'Esterno "entra".

Piccoli coriandoli, geometrie irrazionali fanno lo stesso: volano su, o scendono giù, comunque ponendosi come ponte possibile tra due mondi dei quali Dario Cusani ricerca la compatibilità. La biblica opposizione tra anima e corpo è pronta ad esplodere. Il ludico ambiguo di Cusani, però, la congela in una sospensione spaziotemporale, che torna colorata danza, gioia di vivere matissiana; surreale costruzione di uno spazio vitale che è anche luogo di "appartenenza" nel quale torni "normale" la dualità tutta umana, religiosa in senso laico, tra spirituale e carnale, tra riflessione ed azione; ove infine ci si riappropri, appunto in quanto uomini - angeli caduti? - del diritto alla propria imperfezione e perciò a tutto il tempo necessario per ritrovarsi.

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Autore: Paolo Balmas

Presentarci ciò che crediamo di conoscere bene come se lo vedessimo per la prima volta, questo è stato senz’altro uno degli scopi perseguiti da molta arte contemporanea e su questo sono state scritte pagine di critica straordinariamente penetranti. Non è detto, tuttavia, che non si possono raggiungere risultati di indubbio interesse anche seguendo il procedimento contrario, ovvero cercando di mettere in evidenza proprio quel presunto "conoscere bene le cose", il nostro sguardo senza più verginità, tutti i trucchi e tutta la malizia con cui, giorno per giorno inganniamo psicopercettivamente noi stessi, senza neppure avvedercene, per poter vivere in pace con il mondo.

Con i suoi "ritratti d'interni" Dario Cusani ha fin qui fatto proprio questo, ci ha mostrato lo spazio quotidiano dell'abitare quale ci si presenterebbe al di qua e al di là della soglia del nostro controllo affettivo su di esso: tavoli e sedie che s'inseguono e si azzuffano perché non hanno più voglia di stare insieme, finestre che s'inarcano sotto la pressione minacciosa dello spazio esterno, divani che galleggiano nella luce pomeridiana scivolando su e giù lungo il piano inclinato del pavimento e via dicendo, ma anche note musicali che si materializzano e invadono l’ambiente, colori assai più vivaci e succosi del vero, oggetti che ci si fanno incontro amichevoli e sornioni.

Ora Cusani ci prova ad uscire all'esterno per esplorare lo spazio della città dallo stesso punto di vista e secondo gli stessi principi. La prima passeggiata ovviamente non poteva che essere riservata a Napoli la città in cui è nato e ha vissuto più a lungo; una seconda grande casa piena di stimoli e di presenze radicate nella memoria e nell'anima stessa. Da questa sortita iniziale ancora al riparo di un buon numero di confortanti ancoraggi è emerso subito, va detto, un panorama fortemente specifico e assai diverso da quello legato all’indagine sugli interni. Né poteva essere diversamente. I nostri interni infatti, come minimo dal punto di vista dell'arredamento, ce li facciamo da soli o meglio ancora li dobbiamo, a volte, all'intervento di familiari che sono parte di noi e condividono la nostra storia da protagonisti, una città è invece qualcosa di molto più vasto e ricco di motivazioni sconosciute, di progetti la cui genesi e i cui metodi ci sfuggono, di forme di interazione con la natura e gli eventi del passato complesse e necessitate ben al di là di semplici criteri di gusto e funzionalità.

Ne consegue la non praticabilità di una riproduzione di base affidata ai soli strumenti della pittura e della libera espressività grafica, i quali, nello star dietro ad un simile livello di complessità perderebbero inevitabilmente di immediatezza e pregnanza. Ed ecco spiegato perché il nostro artista abbia pensato, trovandolo anzi più che naturale, di servirsi innanzitutto della fotografia e di certi procedimenti di frantumazione, moltiplicazione e allargamento dell’immagine (analitici e sintetici ad un tempo) già sperimentati sotto un diverso profilo, per i suoi fotocollage.

Disegno e colorazione, una colorazione a volte acida, ma sostanzialmente rispettosa del vero, divengono così momenti di chiosa e commento che prendono forza proprio dall’apparente accordo con il dato riproduttivo meccanico, momenti che si fanno sapidi, ironici, nostalgici, propositivi o soddisfatti sempre e soltanto dinanzi ad una considerazione dello sviluppo complessivo dell'immagine. Piazza del Plebiscito riprodotta separatamente da due lati opposti e dilatata a dismisura si suddivide ineluttabilmente in "Plebiscito Reale" e " Plebiscito Papale"; il portale del Maschio Angioino ripreso dal basso nella stretta dei due torrioni anneriti e possenti si guadagna l'appellativo di "Maschio Imperante"; il gazebo per la banda alla Villa Comunale circondato e quasi abbracciato da vaporose macchie di vegetazione diviene "Armonium Verde" e la villa stessa, quasi un miraggio sospinto lontano da un’immensa spianata deserta (che nella realtà è P.zza Vittoria), si vede ribattezza "La Vittoria del Tempo". Tutti esempi di uno stesso modo di procedere elementare e sofisticato, allusivo ed immediato, affacciato sull'inconscio ed attento alla socializzazione del simbolico, che a questo punto Cusani è in grado di applicare, con la curiosità di un turista e la sagacità di un detective a cento altre realtà urbane per le quali valga la pena di muoversi.

Con la serie delle sue immagini dedicate a Genova, ancora una città di mare dal passato glorioso e dai molti problemi, Cusani prova adesso per la prima volta ad uscire veramente allo scoperto, a misurarsi con impressioni che non sono confortate da una lunga consuetudine e forse proprio per questo risultano più forti e più capaci di spingerlo ad un tentativo di sintesi maggiormente sbilanciata sul piano emozionale, ma anche meno incline all'indulgenza. Un certo abbandono meditativo abbastanza evidente nell'indagine su Napoli cede, infatti, il posto ad una via metaforica e costruttiva stringente, tesa quasi a produrre un insieme programmato di slogan visivi.

La recente ristrutturazione del porto a Caricamento tende, ad esempio, a mettere in evidenza soprattutto l’elemento liquido, lo specchio d’acqua che ora è più accessibile al visitatore e a chi si prende un momento di svago e tuttavia proprio per questo ci si presenta ancora meglio come una sorta di smisurato campo di possibilità che chiede di essere fecondato a pieno, come un tempo, dalla realtà del lavoro. Sono comunque, ad ogni buon conto, soprattutto le suggestioni che tuttora provengono dall'antica vocazione marinara della Superba a far sentire la loro voce nel nuovo ciclo di opere del nostro artista. L'immagine della nave, tanto per capirci, non a caso vi ricorre per ben tre volte, dapprima come citazione del passato attraverso l'occasione fornita dal Galeone ricostruito per il film "Pirati" ora alla fonda davanti all'acquario, poi come simbolico veliero già pronto a catturare il vento tramite le strutture metalliche che circondano il Bigo di Renzo Piano, (ed è un veliero, lo si noterà, ancora pallido e indefinito, vale a dire tutto da costruire), infine nella prepotente invenzione che ricava una filante petroliera a partire dal rinnovato blocco architettonico del Carlo Felice sovrapposto a mò di torretta ad uno scafo fatto di antiche finestre, un'invenzione che ci conferma come la densità abitativa della città sia percepita ancor oggi da chi vi giunge da fuori quale indubbio segnale di uno straordinario potenziale creativo alimentato da una secolare ed originale tradizione di cultura.

Autore: Marco Meneguzzo

Come ne "L’angelo sterminatore", non si può uscire, una barriera invisibile ci permette di guardare ad di là, ma non di uscire dalla stanza; oppure, in maniera più soffice, il mondo si può conoscere stando sempre a casa, in una serra d’orchidee, o seduti fumando la pipa e suonando il violino - il piano, nel caso di Dario Cusani - ; oppure, ancora, l’idea di una visione "dall’interno" diventa senso di protezione, di rapporto amicale con le cose conosciute, tanto note e presenti da risultare vive, in una specie di animismo domestico, come in un racconto di Savinio di "Casa la vita"...

C’è tutto questo nel lavoro di Dario Cusani e, naturalmente, qualcosa in più, originale e autonomo. Solo due anni fa, dipingeva la sua visione da dentro - che è assai più che dipingere un ‘interno’, perché in questo caso l’artista può essere osservatore esterno, distaccato, mentre in quello l’artista è anche abitante l’abitante del luogo -, poi, adesso, il senso di avvolgimento, di immersione, lo ha spinto a circondarsi del suo ‘stato d’animo’ domestico, realizzando fisicamente quell’ambiente psicologico che la tradizione vuole bidimensionale.

Non è un mondo che si frantuma le certezze borghesi, il salotto, il pianoforte, il soprammobile, un sistema di convenzioni, di forme ma semmai che si deforma: un giorno ci svegliamo e gli oggetti ci sono estranei, ancora riconoscibili ma deformi, ribelli alle consuetudini, all’uso di un tempo.

Molta letteratura si affaccia su questo lavoro, e anche il teatro della ‘quarta parete ’ che portava già in sé i sintomi della propria crisi, ma la sottile, fascinosa messa in scena di Cusani aggiunge qualcosa anche alla tendenza scenografica dell’arte, emersa in questi ultimi due decenni. Solitamente, infatti, la messa in scena dell’Arte riguardava e riguarda la proposizione su scala scenica di oggetti decontestualizzati, presi tout court dal reale, presentati e non rappresentati. Nel nostro caso, invece, Cusani mette in scena la pittura, non l’oggetto. I suoi ambienti sono quadri veri e propri - e chiara è la derivazione dalla produzione bidimensionale precedente-, che non solo non mettono in scena il reale, ma non lo mimano neppure: l’ambizione di ‘entrare nel quadro ’ qui si attua nel modo più semplice e lapalissiano (e qualcuno avrà notato che non ho mai parlato di scultura, pur essendo in presenza di tre e forse quattro dimensioni), facendo uscire dalle pareti ciò che era solo dipinto. In questo modo una certa scuola romana e napoletana di pittura si rinnova in maniera soffice, leggera, gentile, rifiutando ogni pur vaga reminiscenza da teatro espressionista, per rimanere all’interno di un’atmosfera da "palchetti romani", entro una catastrofe sì, ma domestica.

Tutto può svolgersi in un interno.

Autore: Paolo Balmas

Nell'Austria di Metternich, quando l'ottocento cominciava appena a camminare sulle sue gambe, si era diffusa la moda di fare il ritratto agli arredi della propria casa. Il clima politico non favoriva di certo né le grandi adunate all'aperto, né le spericolate avventure culturali che avevano coinvolto la migliore gioventù europea ancora qualche decennio addietro, ma il Romanticismo, soprattutto quello letterario, era già cosa fatta. Così tanti minuziosi, impagabili acquerelli dovuti magari alla mano di raffinate dame o delicate fanciulle delle migliori famiglie del tempo ci parlano insieme del culto Biedermayer per gli interni domestici e di una rivoluzione che di lì a poco, nel fatidico '48, avrebbe di nuovo infiammato il Vecchio Continente; forse l'unica rivoluzione della storia ad essere scoppiata nei cuori della gente colta e ben educata prima ancora che nelle piazze delle città.

Anche Dario Cusani dipinge interni domestici: i salotti, le verande, gli angoli studio e le camere da pranzo che caratterizzano lo stile di vita a lui contemporaneo. La pratica è dunque la stessa di allora, gli intenti e i risultati, sono, ovviamente, del tutto diversi. Ma quali possono essere gli intenti di una simile pratica, di un interesse cosi desueto e così apparentemente distante dalle tematiche che in questo momento vedono impegnate le forze più vive dell'arte contemporanea? Nessun mistero e nessun paradosso, per comprenderlo non c'è che da cominciare a prendere in esame, appunto, i risultati.

La prima cosa che balza agli occhi è la vivacità dei colori, la loro nettezza un po' artificiale. Anche negli splendidi interni mediterranei di un maestro del novecento come Matisse i colori sono più accesi e definiti di quanto non ci appaiano nell'esperienza quotidiana, pure nessuno si sognerebbe di parlare di artificialità e anzi, semmai, non v'è chi non concordi nel cogliervi una conquista ulteriore nel lungo tragitto compiuto dalla pittura moderna verso una migliore comprensione della realtà del vedere. Il gradiente di artificialità dei colori di Cusani non è dunque la mera conseguenza di un espediente psicofisico già assorbito, semioticamente trasvalutato e fatto proprio dall'arte contemporanea quale l'uso del colore così come esce dal tubetto, bensì il risultato di una contestualizzazione dovuta alla natura stessa dei soggetti rappresentati, al loro essere pezzi di arredamento e oggetti d'uso il cui valore d'affezione e la cui continua frequentazione non possono e non potranno mai più essere sufficienti a disancorarli da un sistema di significati comunque gestito e calcolato in riferimento al modo di produzione industriale e, a conti fatti, in rapporto di sicura dipendenza da esso.

Che questo divano sia quello dove passo le mie serate davanti al televisore, che questa sedia sdraio sia quella che uso d'estate per appisolarmi in giardino, o infine che la sovracoperta di questo libro rivesta la mia raccolta di poesie preferita non impedisce ai loro colori perfetti di fare aggio su tutti gli altri colori "imperfetti" dell'ambiente domestico, di farmi percepire questi ultimi non come risultati di processi più o meno naturali (una chiazza di umido sulla parete, le venature di una tavola di legno, una stoffa o della carta sbiadita ecc.) ma come manchevolezze rispetto ad un modello preponderante, come forme di corruzione dell'unica materia oggi universale, la "non materia" colorata e omogenea del prodotto industriale finito. Una seconda caratteristica immediatamente evidente delle immagini proposteci da Cusani è quella della deformazione volumetrica. Una deformazione che coinvolge tanto l'ambiente inteso come contenitore architettonico quanto l'ambiente inteso come insieme di oggetti che testimoniano di un vissuto complesso e stratificato. Finestre dalla sagoma incombente e irregolare, mobili rigonfi e contorti, sedie schiacciate sulle pareti, pavimenti lievitati e invasivi, strutture di supporto sghembe o comunque capricciosamente atteggiate, oggetti fuoriscala, prospettive impossibili e via dicendo, il tutto però senza sbilanciamenti né sul versante del comico né su quello del drammatico, né in direzione di un qualche effetto allucinatorio né in vista di una qualsivoglia metafisica e spiazzante trascendenza. Anche qui se ci si lascia guidare dall'evidenza e si evita la tentazione di andare al di là delle indicazioni fattuali dell'autore la giusta chiave di lettura non tarda ad emergere. Basterà, infatti, verificare come la globalità delle mutazioni morfologiche esibite non possa essere ricondotta ad unitarietà né in base a leggi ottiche né in base a costruzioni spaziali preordinate di tipo extraeuclideo per assicurarsi di come l'equilibrio mantenuto non sia altro che il prodotto di un gioco intuitivo di spinte e controspinte, di tensioni dinamiche che, pur esaltandosi parzialmente nel loro relazionarsi, finiscono comunque per ammortizzarsi vicendevolmente.

Un terzo nodo operativo attivato in maniera forse meno costante, ma sempre assolutamente palese da Cusani è, infine, quello rappresentato dal fattore ornamentale, una componente che a volte si presenta come tendenza a riempire indifferentemente tutte le zone di colore con una campitura ininterrotta di originali stilemì graffiti e a volte ci appare più semplicemente come insistenza su partiti decorativi già presenti negli oggetti rappresentati, ovvero come coincidenza segnica che sfrutta quella stessa tendenza astrattiva all'autonomia d'immagine che fu già propria nello specifico dei Nabìs e dì molta pittura Art Nouveau. Anche qui nessuna vera difficoltà interpretativa e valutativa per chi si sappia mantenere, insieme all'àrtista, nel proverbiale "giusto mezzo". Abbiamo sicuramente a che fare con un discorso ritmico, vale a dire con un di più dì attività formativa che si sovrappone ai normali apporti strutturanti che presiedono al fatto percettivo. Fin qui i risultati dell'inconsueta scelta pittorica di Cusani ritrattista d'interni di epoca post-industrìale, ma come giungere a comprenderne gli intenti di fondo? Ancora una volta l'indicazione per trovare la soluzione del problema è consegnata con elegante noncuranza alla struttura rappresentativa dell'opera, al tipo di messa in scena che essa presuppone. Negli interni di Dario Cusani non ci sono figure umane eppure non viene per nulla fatto di sospettare una qualche situazione di abbandono, di fuga o di sovrumana intemporalità. Essi sono semplicemente ambienti osservati da qualcuno in assenza di altre persone. Non però osservati con intenti di resa obiettiva al fini di una comunicazione protraibile nel tempo in quanto incernierata a valori pittorici universali, bensì percepiti senza rinunciare a nessuna delle abitudini e attitudini mentali di chi guarda. Sono cioè autentici contenuti di una coscienza individuale che nel metterli a fuoco non rinuncia a nessun aspetto della percezione del sé, della propriocezione sia immediatamente evidente che subliminale.

Abbiamo dunque a che fare, inevitabilmente anche, con una rappresentazione fedele della nostra condizione epocale indubbiamente completa e rigorosa anche se solo limitatamente al tema prescelto. Già, ma perché quel tema, quel limite così in odore di intimistica regressione? Non vorrei sovrappormi indebitamente all'autore nel tentare di rispondere, ma credo che la cosa abbia il valore polemico dì una sfida. A che serve rappresentare la scena urbana o quella sociale, la condizione antropologica nell'universo dell'ipercomunicazione tecnologica o i turbamenti e le tensioni dell'intera compagine umana nell'epoca del crollo delle certezze, se prima non si è indagato il ricasco reale e tangibile della presente condizione socioantropologica su quella dimensione esistenziale che è il prodotto primario e immediato del nostro irrinunciabile sforzo di adattamento e convivenza con tutto ciò? Che senso ha isolare radicalmente questo o quel dato strutturale dell'irreale realtà in cui ci troviamo a vivere se prima non si è passato al setaccio il nostro stesso vivere?

Ecco allora che fare il ritratto alla propria casa torna ad essere un modo di fare il ritratto alla propria epoca, di parlare di un mondo dove non esiste più un vero confine tra esterno ed interno, di una società che viola di continuo ogni legittima intimità, e fa crescere dentro di noi giorno dopo giorno un desiderio di rigenerazione sempre più radicale e deciso, una sorta di musica interiore che nel propagarsi alla ricerca di una bellezza davvero nuova si fa via via più definitiva ed intensa.

Autore: Gianluca Marziani

Sguardi ravvicinati di altro tipo

Doppio binario

Due percorsi distinti e autonomi, due modalità tecniche che un giorno, non certo per caso, hanno cominciato ad interagire in forme più o meno dirette: la Pittura da un lato, eterna tensione dell'Uomo da quei tempi ormai invisibili per qualsiasi memoria registrante; la Fotografia dall'altro, invenzione prefilmica per una realtà che allunga le memorie visive oltre i confini del limite spazio-tempo. Dalla soggettiva pura del dipingere si arriva così all'oggettività preselezionata dello scatto fotografico: due stradari della registrazione mnemonica che un giorno, dopo tanto guardarsi a distanza di conformistica sicurezza, iniziano a sfiorarsi, toccarsi più a fondo fino a connubi ibridanti tra le sfibrate e logiche debolezze genetiche di una con la sicura fermezza imbalsamante dell'altra...

Gli anni passano, si sperimenta in giro per il mondo e certe ibridazioni tra Pittura e Fotografia danno i loro risultati: siamo nel novecento in corso, catena di passati ben lontani da chi scrive, nelle zone dove la libertà di pensiero personale permette di dare scenografia alle parole dei libri e montaggio continuo alle immagini isolate.

Ma d'improvviso, come in un velocissimo meccanismo di realtà veloce, lo stesso dei film di Godfrey Regio o dell'ultimo Robert Lepage, azioniamo il nostro ritorno al futuro e arriviamo senza stop analitico al signor Dario Cusani, immergendoci tra quadri nel suo studio, cataloghi, scambi di parole, immagini memorizzate e altro.

Compenetrazioni ibridanti

Lo studio romano di Dario Cusani è un pò la spiegazione del suo destino di artista raffinatamente ibrido e ibridante: cavalletti, tanti quadri e i mezzi classici del backstage pittorico; e insieme al mondo antimeccanico di colori, tele e carte, ecco macchine fotografiche e cineprese, computer, modem e telefonia senza fili, non dimenticando le tante decostruzioni fotografiche alle pareti stracolme di ancor brevi retrospettive semipermanenti e molto intime. Dentro la grande stanza del suo studio si compie la fissità mnemonica di un artista che tiene a mente il proprio passato in un continuo circondario di tecnologia manualizzabile ma anche di artigianato stanco dei propri limiti. Ciò che emerge a degna dissepoltura è, allora, un doppio senso della chiusura: la Pittura che vuole svincolare concezioni estetiche del paesaggio in esterni o interni e lei, quella Fotografia che proprio in questi anni, nel pieno di un temibile splendore, cerca la miglior evoluzione per assemblarsi alle altitudini qualitative della creatività manuale. Pittura e Fotografia di Dario Cusani si trovano oltre la chiusura eventuale del proprio status d'origine, in un superamento del medium autonomo per formare l'identità ibridante di un corpo staticamente cinetico, spiazzante per la vista, magnetico per calamitare uno sguardo estraneo alle visionarietà diffuse.

Spaesaggi

Quelle di Dario Cusani sono zone di non confine, paesaggi nati dalla conturbante forza modificatoria di una mente creativa intrecciata al ricordo percettivo dei luoghi. Il giro italiano è tra le grandi città peninsulari come Roma, Bologna, Genova, Milano e Napoli: spazi di architetture e monumentalismi noti ma anche anfratti di una solitudine storica che si mescola a certe novità cittadine dell'ultima azione edilizia. Aggirandosi con reflex alla mano e occhio ipersensibile tra quelle zone, l'artista scatta e dissemina cliccate su singole zone, ruba decine di immagini da uno stesso punto e poi vola verso la pittura, nella concentrazione artigianale di un pennello che costruisce gli spazi oltre la foto, oltre i montaggi delle continue sequenze di foto a incastro progressivo. Ogni opera è pronta a scegliere un frammento di territorio e, partendo dalle chiavi principali di quel territorio, a costruirne uno nuovo ma stranamente simile a quello della percettività retinica. La fotografia struttura il percorso formale e rilancia la memoria verso la riconoscibilità ancora possibile del luogo: eccole le singole foto che si inerpicano perimetro su perimetro, sovrapponendo i propri bordi o ripetendo alcuni motivi architettonici, ampliando la struttura originaria o sottraendo parti connotative. Gli scatti sono solo l'ossatura di un corpo che si muscolarizza con la pittura e costruisce quell'identità giustamente ibrida di cui parlavo prima. Oltre i bordi delle foto inizia l'azione penetrante del pennello che concretizza le aperture mentali e compie lo scatto in avanti di una pittura pronta a disciogliersi, fantasticare, eccedere o ritirarsi. Colori e forme non tradiscono mai l'azione istintiva di un incedere che apre al dubbio, allo strano di una qualsiasi alterità. Una villa a Capri si allunga come un high tech orizzontale mentre il Maschio Angioino sembra incombere sul mondo degli sguardi "piccoli"; e poi gli stessi luoghi possiamo seguirli in fasi diverse e progressive, mutanti come le visioni di sguardi tra loro distanziati nel tempo e nello spazio. I mezzi di Dario Cusani restano Pittura e Fotografia, il mondo rimane identico nel modo in cui l'artista lo seziona coi suoi mezzi tecnici e artigianali: cambia il mescolamento dei medium, il punto di confine tra le due forme espressive; e su questa dialettica visiva si concentra l'intero lavoro di Cusani che, da diversi anni di riflessioni oggettuali, segue la linea coerente di uno sguardo ravvicinato di altro tipo.

Zone di alterità filmica

Inerpicato tra quegli stimoli molteplici che ogni quadro di Dario Cusani riesce a suscitare, rimango nel ritmo dei superamenti (Pittura e Fotografia fuori dai propri confini) e mi immergo nei campi lunghi del Cinema, luogo dove i quadri della mostra sembrano giungere (o da cui potrebbero provenire) per poi andare in qualche zona dell'alterità ricercata. Nel regno filmico che inventa paesaggi o mostra le devianze possibili di qualsiasi spazio apparentemente noto, Cusani giunge con le sue ibridazioni pictofotografiche e fornisce materia per vedere il punto di scambio tra mondi visivi così vicini. Ogni scorcio, panoramica, taglio prospettico dell'artista intravede solo il cinema più acido e forte in quanto, per tensione di ogni pannello, si mostrano città alterate, spazi impossibili, strade in eccesso o difetto rispetto alla realtà concreta. Vedendo i pezzi su Napoli verranno allora in mente Pappi Corsicato, Antonio Capuano o Antonietta De Lillo assieme alla Palermo spiazzante di Ciprì-Maresco; con Milano spuntano fuori Silvio Soldini, Bruno Bigoni e Michele Sordillo; con Genova vien da pensare a diversi spunti parigini del cinema a tensione "giovane": ogni luogo richiama, infatti, il suo oscuro oggetto del desiderio filmico, la propria anticentralità rispetto alle conoscenze diffuse dei conformismi centralistici della visione. Dario Cusani non replica, ovviamente, quel cinema ma rimane autonomo pur sottolineando possibili e involontarie similitudini. Il suo paesaggio ha strani spazi vuoti, confini aperti attorno ad un monumento o edificio, senso incombente della distanza aerea, orizzontalità allungate che tolgono centralità all'Uomo. E proprio come quel Cinema di cui parlavo, i pannelli di Cusani lavorano su questa centralità dei luoghi a discapito della faunistica umana: le persone possono esserci ma sempre alla distanza che li rende frammenti sparsi di un mondo scrutato dal grandangolo e da altri obiettivi virtuali a campo lungo. I registi citati ma anche Roberta Torre, Pasquale Pozzessere, il duetto Rezza-Mastrella ed altri, sempre rimanendo in Italia poiché mi interessa la dialettica di spazi estetici vicini nell'ispirazione semantica: loro, gli altri e Dario Cusani in una concezione dell'inquadratura che sfonda le "leggi del già dato" e tenta, ogni volta, di sorgere oltre la linea dell'orizzonte canonico.

Tornando a quei decenni passati che, a prologo di quanto scritto, abbiamo eliminato con un velocissimo e mentale fast forward, non dimentichiamo i debiti che Dario Cusani, come qualunque artista sul pianeta Terra, ha contratto per la giusta causa del proprio moto creativo. Ma notiamo lo Stile prima di tutto, elemento che definisce personalità e riconoscibilità di un singolo rispetto al restante esterno. Dario Cusani segue la linea personale di un possibile superamento delle immagini note: e compie questo stradario linguistico lavorando sulle visioni primordiali di una piazza o di un salotto, di uno spazio monumentale o di una stanza da pranzo. La normalità del vedere, quindi, ma secondo codici estetici di ripresa alternativa dell'immagine, di apertura alle alterità possibili del livello normale. Per questo, forse, è meglio non dimenticare il passato senza però, almeno ora, nominarlo: in fondo, a che serve citare quando siamo così immersi nel contemporaneo della visione?

Autore: Dario Cusani

Dieci anni fa la mostra “cromatica” al Twenty One di Milano, curata da Philippe Daverio, sancì la fine della presenza della figura nei miei lavori. Lentamente negli anni si era sempre più nascosta nello spazio in cui esisteva, passando da un’esplicita rappresentazione di azione e di sofferenza ad una condizione più intimista.

La figura ora si intersecava con lo spazio nel quale viveva, confondendosi con esso, venendo trafitta da tutti i segni che lo componevano e che rappresentavano la condizione umana schiacciata dalla prepotenza e dalla cultura del vincente disposto a sacrificare tutto e chiunque per i suoi traguardi, forse anche la sua stessa condizione di felicità, nell’ansimante inseguimento del potere portatore, invece, di una infelicità scoperta sempre troppo tardi.

La mia figura era arrivata al capolinea, non potevo massacrarla oltre senza farla addirittura scomparire, lasciando così solo lo spazio astratto con tutti quei piccoli segni geometrici che avevano una scansione matematica ed una ripetitività ossessiva che Philippe Daverio intuì come “musica in pittura”. Fu, infatti, questo il tema della mostra che mi organizzò nel ’90 con un catalogo a forma di pianoforte a coda che, in apertura, presentava il famoso quadro di Picabia del 1913 “La musique est comme la pinture”. Mi chiese anche di titolare i quadri sul catalogo con riferimenti musicali … “arpeggiando, suonando, ascoltando, concertando”.

Lui, da cultore della musica, sapeva della mia anima nascosta di musicista mancato e colse questo collegamento sotterraneo che mi sorprese molto, facendomi scoprire ciò che io non avevo visto. Mi convinsi, così, che un bravo critico riesce a leggere nell’intimo dell’artista attraverso il suo lavoro, e poi, ponendosi come uno specchio, gli fa vedere cose nascoste da stratificazioni profonde che, però, affiorano inesorabilmente nei suoi lavori.

Ormai la figura stava scomparendo dai miei lavori - realizzai ancora qualche quadro per inerzia - mentre prendeva luce un nuovo modo di rappresentarla, apparentemente molto differente dal precedente, ma con un filo conduttore sottile ed evolutivo.

Guardando in superficie i lavori di questi due periodi si può rimanere sconcertati per la sostanziale differenza di forma, una componente che ho sempre considerato un elemento al servizio del contenuto. Con gli anni mi sono reso conto che nell’arte è fondamentale un equilibrio forma-contenuto perché l’una senza l’altro non può vivere in quanto l’una è rappresentazione dell’altro.

Sempre nel 1990 realizzai il “Salotto di Posillipo”, l’interno della casa dov’ero vissuto, con il quale intendevo fare un ritratto di famiglia raffigurando “un luogo del vivere” nel quale si intravede il gusto, la cultura, lo stato sociale, la tradizione attraverso le cose acquistate, ricevute in dono, tramandate dagli antenati o quale ricordo di momenti vissuti. Dopo una fase di salotti reali, i miei quadri diventarono riprese di luoghi fantastici ed immaginari dove le pareti dividevano lo spazio in un rapporto tra interno ed esterno sempre più incombente, con finestre bianche diventate quasi buchi che lasciavano intravedere il vuoto spaziale all’esterno del nostro mondo, un sogno di libertà e di autonomia accarezzato, credo, da chiunque.

All’interno gli oggetti, protetti dalle pareti, fluttuavano nello spazio in una condizione di continuo mutamento come i nostri stati d’animo in perenne instabilità, umori mutevoli che, a volte, ci fanno “sentire” diverse le stesse cose. Sono le instabilità esistenziali che ci danno la sensazione della precarietà del divenire. Guai se non ci fossero! Che bello se non ci fossero!

La ricerca pittorica sugli interni durò fino al 1994, in una condizione sempre più esasperata che ne faceva intravedere la sua fine in un cammino di continuo scavare dentro di me alla ricerca di una rappresentazione che potesse unificare, in un’unica sintesi, emozioni, convinzioni e condizioni esistenziali.

Infatti nel 1989, poco prima dell’abbandono della figura in pittura, avevo cominciato a lavorare il ritratto fotografico, scomponendo il soggetto come un poliedro dalle tante sfaccettature a rappresentare le tante facce con le quali ci mostriamo agli altri, continuamente diversi ed imprevedibili, in un continuo tentativo di nasconderci per farci scoprire.

Ma la frantumazione del collage in parti sempre più piccole, come in un caleidoscopio, riprendeva quella frantumazione dello spazio e della figura che era stata oggetto della mia ricerca da poco abbandonata.

Nel 1994 avvenne la svolta che determinò la forma attuale con la quale ho unificato la ricerca fotografica sulla figura con quella sui luoghi realizzata con la pittura.

Fu in occasione di una visita a Napoli, fatta in veste di turista con moglie e figlie, dopo che vi avevo vissuto per trentasette anni fino al 1985, che, armato di macchina fotografica, volli fermare, il giorno dopo la conclusione del G7, tutte le innovazioni realizzate per l’occasione e delle quali si raccontava mirabilia nei resoconti giornalistici e prima che, come temevo, tutto potesse ritornare come prima.

Rimasi colpito del maquillage che Napoli si era fatta con il recupero di piazze e monumenti meravigliosi, abbandonati da sempre all’incuria ed ebbi la conferma che “finchè c’è vita c’è speranza” anche se, ben altro, era migliorare condizioni di arretratezza socio-culturali. Scattai centinaia di foto ai luoghi, come avrei fatto ad una persona, inquadrando il soggetto in tanti frammenti che poi ricomposi in collage.

A quel punto vennero fuori immagini con prospettive improbabili, come accadeva negli interni realizzati con la pittura.

Il primo soggetto fu il Maschio Angioino di cui triplicai in verticale il fantastico portale dell’ingresso, creando una forma allungata mentre il castello si sviluppava in orizzontale. Questo rispecchiava la sensazione di maestosità che avevo avuto scattando le foto dal basso.

Era necessario, a questo punto, completare il collage fotografico per dare una forma a quel monumento che volevo estrapolare dal suo contesto dandogli un significato rappresentativo di una popolazione e della sua storia.

Fu così che, con la pittura, realizzai i due torrioni laterali con un prospettiva piramidale che rappresentasse le dominazioni che nel tempo si erano succedute a Napoli.

Nacque così il “Maschio imperante” che, tra l’altro, voleva anche essere un accostamento all’uomo di oggi ed al suo ruolo che sta rapidamente e profondamente mutando nella società e nella famiglia.

Con la fotografia riprendevo dunque la realtà anche se, elaborandola con il collage, ne modificavo la spazialità in linee molto verticali e orizzontali. Poi con l’intervento della pittura rappresentavo il sogno, trasferendo il tutto in “un’altra realtà” come ha ben centrato Valerio Dehò, critico di Bologna che segue il mio lavoro.

Con questa tecnica avevo finalmente dato rappresentazione alle due componenti dell’esistenza umana: quella reale e materiale del corpo e quella fantastica e sognatrice dell’anima; forze in contrasto tra di loro che, proprio nello scontro continuo tra il “chi siamo” e il “chi vorremmo essere”, sono il motore che spinge l’essere umano al divenire.

Realizzai con questa tecnica anche gli interni che, così, avevano trovato una forma per rappresentare quei contenuti che da sempre mi avevano ossessionato: raccontare la realtà, attraverso il sogno, nel tentativo di renderla più bella depurandola di tutte le negatività che l’assillano e che sono frutto delle miserie umane. Da allora il mio viaggio nelle città è proseguito in giro per l’Italia, l’Europa e l’America con mostre là dove sono riuscito a trovare interlocutori disponibili.

Gli interni e le città, come luoghi del vivere sono entrati a far parte della più ampia ricerca sui “luoghi della memoria” che, nel tempo, si è arricchita di altre rappresentazioni approdando nel 1997 alla fabbrica, importante luogo di lavoro nel quale l’uomo trascorre circa un terzo del suo tempo con grande fatica fisica e sofferenza.

Mi capitò, infatti, l’opportunità di lavorare sull’Italsider che cominciava ad essere smantellata: la chiusura della fabbrica significava una crisi del settore siderurgico e di un modello di lavoro, ma, soprattutto, un profondo cambiamento delle tecnologie con l’avvento del computer.

La grande fabbrica, icona del ‘900, stava lasciando il posto ad una nuova icona molto diversa. Scoprii così un mondo nuovo che in America era già in sviluppo dove le tecnologie del lavoro a distanza con la trasmissione di qualsiasi informazione via internet stavano stravolgendo l’intera società civile. Mi resi conto che il computer era un mezzo a disposizione di chiunque e quindi anche del mio lavoro. Fino ad allora lo avevo usato con programmi di scrittura e di editing per realizzare i cataloghi, ma dalla fine del ’98 cominciò ad entrare nel mio lavoro con l’elaborazione delle immagini nella fase progettuale.

Il primo effetto fu di trasferire il fotocollage, che prima incollavo sulla carta, direttamente sulla tela ottenendo un effetto ancora più spiazzante dato che il confine tra foto e pittura diventava ancora più nascosto essendo entrambi sullo stesso supporto senza lo scalino che la foto incollata inevitabilmente determinava.

Sviluppai così la realizzazione di gigantografie al plotter che diventarono vere e proprie installazioni come il grande portone di palazzo Serra di Cassano che potei riaprire simbolicamente in occasione della mostra nel ’99, allestita proprio in quello storico luogo.

Progettai così le installazioni per la mostra dell’Italsider al computer che era oramai entrato nel mio lavoro con il mouse che si era affiancato al pennello. Anche per questa mostra tutti i lavori su New York sono stati elaborati al computer con l’innesto di disegni e pittura e trasferiti su carta con il plotter.

Chissà se in futuro il mouse sostituirà completamente il pennello!

Autore: Dario Cusani

Sono cresciuto in una casa amata come un essere umano. Ho faticato ad accettare questo concetto, ma con il tempo ho capito che le cose in una casa altro non sono che lo specchio delle persone, il risultato della loro storia, del loro carattere, delle manie e delle ambizioni, delle tradizioni e delle contraddizioni, delle memorie e del loro rigetto. Cioè lo specchio di se stessi e quindi del proprio intimo. Ecco che, dopo la ricerca pittorica fatta tra il 1988 e il 1990 sulla figura umana e il suo conflittuale rapporto con il mondo esterno, questa ricerca sugli "interni", che è seguita negli ultimi due anni, ha lo stesso sapore, senza quella con-flittualità.

Qui racconto di un io nel proprio intimo, un interno fatto di cose che sono i suoi ricordi, la sua realtà, la sua storia. Un interno che ha inevitabilmente un rapporto con l'ester-no, attraverso un confine delineato da finestre aperte o chiuse o semiaperte. Un esterno che è li per circondare il proprio mondo intimo, pronto a volte a penetrarvi dentro come una massa liquida forse minacciosa, forse benevola. Come la liquidità del nostro intimo, cioè di qualcosa in equilibrio instabile e quindi in un perenne movimento che crea un continuo cambiamento della scena. È l'instabilità dei nostri umori mutevoli che ci fanno sentire ogni volta di-verse cose uguali. Sono le instabilità esistenziali che ci dan-no la sensazione della precarietà del divenire. Guai se non ci fossero! Che bello se non ci fossero!

Autore: Lorella Scacco

Le emozioni e gli affetti costituiscono parte fondamentale nella ricerca espressiva di Dario Cusani.

L’artista fa riemergere le impressioni custodite nella sua memoria attraverso un particolare procedimento.

L’artista utilizza la macchina fotografica per registrare delle immagini con cui sviluppa un processo di frammentazione e di ricostruzione.

Numerosi tasselli fotografici della stessa immagine ma secondo diverse angolazioni vengono infatti assemblati e posti su tela per ricreare le impressioni di venti vissuti o il ricordo di un volto amico.

Uno degli esempi più chiari di questa operazione avviene col ritratto dove un collage di fotografie diverse ricostruiscono il volto o la figura di una persona.

Durante la lunga elaborazione del collage Cusani ripercorre e analizza la sua esperienza percettiva legandosi alle pratiche pittoriche dei Neo impressionisti quando alla fine dell’ ottocento componevamo la sensazione visiva per riconoscere che essa non era una semplice impressione ma aveva struttura e sviluppava attraverso un processo. Altri riferimenti per l’artista sono i cubisti e Matisse.

I ritratti di Juan Gris er i paesaggi di Robert Delaunay sono un importante punto di riferimento per i sui Fotocollage che inizia a realizzare dagli anni novanta. Vi è lo steso principio disintegrazione del soggetto nel ritmo dello spazio e dell’immagine. Cusani è stato poi attratto dagli scintillanti colori di matisse che si stemperano e si disperdono nella luce solare.

Ma l’artista ama Matisse anche perché era colui che aspirava a una nuova sintesi delle arti in cui musica e poesia confluiscono nella pittura.

Cusani fin da giovane sensibile alla musica afferma che la scansione ritmica delle sue foto è vicina a quella musicale al suo senso del divenire come si osserva nell’ opera “arpeggiando Cristina” del 1990.

L’elemento musicale e speso sente nelle sue opere attraverso la rappresentazione del pianoforte in alcuni suoi interni domestici oppure il pentagramma fa da sfondo al suo autoritratto.

Negli anni novanta ha poi realizzato delle scomposizioni per pianoforte create in contemporanea o l’ausilio del computer che mentre suonava, scriveva la sua partitura durandola poi dalle imperfezioni. Emozioni e sentimenti attraverso il tema della musica ma anche attraverso quella della casa. Dopo avere dipinto alcune maternità con bambino come Infanzia musicale (sotto in foto) e “Ascoltando una maternità lacrimosa” in cui si proiettavano i suoi desideri affettivi intorno al 1989 gli interni domestici diventano i protagonisti dei suoi quadri.

Le pareti di casa contengono affetti e memorie , sono il perimetro di un rifugio che l’artista ama spesso disegnare con i pastelli e a cera o dipingere con colori ad olio “Il salotto di Posillipo” è il primo interno realizzato dall artista con la presenza quasi invisibile di due figure sedute sul divano. Si tratta di due genitori dell autore il cui rapporto si evidenzia in questa sorta di presenza-assenza.

Con questo quadro inizia la sua ricerca sugli interni “domestici” dove il ritratto della famiglia avviene attraverso il salotto di casa che custodisce e mostra gli oggetti della memoria.

Nascono cosi una serie di opere dove i salotti di alcuni amici vengono deformati da prospettive “impossibili” che rendono instabili anche tutti gli arredi contenuti nel suo interno.

Gli stessi titoli delle opere indicano l’agitazione che viene all’ interno di queste composizioni con “Interno Fluido” nel 1991, “Interno Danzante” nel 1992, “Interno dondolante” nel 1992.

Perché un atmosfera agitata circola in questi appartamenti?

Perché lo spazio di una casa va a coincidere con gli stati d’animo delle persone che vi abitano.

La ricerca sugli interni domestici seppure iniziata da quelli reali si è poi rivolta a quegli interni immaginari nei quali gli oggetti le sedie e i divani rappresentazione dei nostri stati d’animo si muovevano nello spazio diventato l’universo interiore di tutti. Nello stesso periodo e cioè nel 1989 l’artista inizia ad utilizzare il medium della fotografia. La rappresentazione dei luoghi domestici ci prende forme cosi pittoriche e fotografiche.

Le Colonne di Posillipo del 1990 illustrano bene questo passaggio: la parte centrale del quadro è composta dall’ accostamento di tre fotografie il cui leggero sfasamento ci fa capire che sono tre scatti diversi e la loro immagine viene completata dalle pennellate dell’ autore che vanno a completare la visione d’insieme. Oggi l’utilizzo della stampa a plotter su tela permette di rendere ancora piu visibile questo passaggio dalla tecnica meccanica e digitale a quella manuale.

L’accostamento della fotografia alla pittura ha permesso a Cusani di concretizzare uno dei suoi più grandi desideri: l’intreccio tra realtà e sogno. Se le fotografie documentano lo stato reale delle cose la pittura lascia spazio a incursioni fantastiche ed ambigue.

Il Fotocollage viene infatti completato dalla pittura che può rispondere all immaginazione e alle intuizioni dell’artista. Come nel caso di Tra-Passato-futuro Roma del 1996 dove i campanili di Trinità dei Monti vengono moltiplicati e completati da una mezza luna mediorientale simboleggiando l’accresciuta componente musulmana nella nostra società.

Nella stessa opera la fontana di Pietro Bernini a Piazza di Spagna si trasforma in una grande e famelica bocca animale. Le rivisitazioni immaginarie della sua città d’origine, Napoli, sono numerosissime, da Maschio Imperante grande nel 1995 a sogno Napoletano nel 1996.

La ricerca espressiva sulle città d’Italia vuole illustrare la molteplicità delle realtà locali che con la loro storia e la loro particolarità creano insieme un concetto di tutto.

L’autore guarda a Bologna, Ravenna, Roma, Milano ma soprattutto Napoli sua città d’origine. Un lavoro che l’artista dedica con grande impegno a Napoli è Il portone della rivoluzione nel 1999, un foto collage a grandezza naturale su carta applicato sul portone “chiuso” del palazzo serra di Cassano e la performance “La luce di Gennarino”.

I due diversi lavori ricordano gli avvenimenti della Rivoluzione Napoletana del 1799 e vogliono simboleggiare l’eternità degli ideali.

Nel 1997 dopo avere realizzato gli interni le città e i ritratti l’artista si interessa ad un nuovo tema ovvero la fabbrica. Lo smantellamento dell‘Italsider di Bagnoli da l’occasione all autore di immortalare la grande fabbrica prima della sua scomparsa.

Scatta alcune centinaia di foto del soggetto da vari punti di vista e li assembla per creare delle “nuove realtà” che hanno perso la loro identità originaria per trasformarsi in ambienti nuovi: osserviamo cosi la fabbrica diventare un giocattolo che viene trasportato da un ragazzo su carrello: I suoi camini si trasformano in tunnel in cui degli “scugnizzi” vi scivolano fuori come ne “La giostra”. La complicità’ napoletana che riesce ad alleggerire alcune situazioni altrimenti drammatiche esce fuori anche un paesaggio come quello americano. L’artista dopo un viaggio negli stati Uniti nel 1999 ha realizzato una serie di lavori da titolo “speaking in paradise” (foto sopra) dove vediamo ad esempio sue signore intente a chiacchierare dagli improbabili balconi tra due grattacieli. Donne dunque che si prendono una pausa mentre gli altri si affannano nelle competizioni quotidiane per il successo e il denaro.

Come spiega lo stesso artista il “paradiso lo hanno dentro di loro nei valori delle piccole cose e della comunicazione umana”. Un altro stereotipo napoletano portato in questi scenari newyorchesi sono i pani stesi al sole ad asciugare.

Nei recinti lavori Cusani si dimostra sempre attento a quegli aspetti quotidiani del vivere a quelle tipiche “italianità” che celano alcuni dei valori più importanti della nostra società.

Autore: Dario Cusani

A Mari, l’altra metà del cielo

Desidero ringraziare le persone che hanno collaborato alla realizzazione di questa mostra al Chiostro al Bramante nata da un contatto con l’amica Anna Boursier Niutta che mi ha presentato Patrizia de Marco animatrice di importanti mostre storiche nel magnifico spazio di Via della Pace la quale ha apprezzato il mio lavoro e mi ha accordato uno spazio espositivo.

A loro va il mio il mio primo ringraziamento cui segue quello ai nostri sostenitori: Paola Guerci Assessore alla cultura della Provincia di Roma che ha dato il patrocinio, Lisa Lovenstein della Made in Museum che ha realizzato il “cubo Cusani” con immagini dei miei lavori, Alberto e Fabrizio Facello della Harpa Italia che ha fornito computer e Stampanti della Hewlett Packard per performance e installazioni, Rudy Peroni che ha inondato di birra il vernissage, Mario Pandolfi della Miligraph che ha stampato il catalogo e la Art in Move che ha organizzato la mostra.

"Nato il 4 agosto" - Introduzione a cura di Dario Cusani La nostra data di nascita la ripetiamo sempre con automatismo e solo come dato anagrafico da comunicare agli estranei. Chi l’ha mai comunicata a sé stesso? E’ una cosa inutile? Non credo!

Quel giorno, mese e anno significano l’inizio del “cumulo delle memorie” - come le chiama Manzoni nel 5 maggio dedicato a Bonaparte - con le quali prima o poi dobbiamo fare i conti.

Da quel giorno cominciamo a stratificare emozioni, immagini, suoni, sofferenze, gioie e quant’altro costituirà la componente liquida della nostra esistenza che verrà sorretta dallo scheletro rigido del nostro carattere, la prima in continuo cambiamento, il secondo immutabile nel tempo, ma entrambe architrave del nostro futuro.

Andando avanti negli anni, quindi, accumuliamo memoria come un computer che di essa vive e della capacità di incamerarne sempre di più, ma, presi dall’incalzare della vita, non prendiamo coscienza di questo cumulo che, quasi sempre, condiziona tutte le nostre scelte.

Ma ecco il punto: il computer, a differenza di noi, non ha i ricordi che affiorano come iceberg, lentamente, durante la nostra vita e sempre più emergenti quando gli anni cominciano ad accumularsi dietro le spalle.

Le insicurezze, che nascono dalle carenze affettive o dalle delusioni infantili che un bambino sopporta, soprattutto da parenti e amici, si trasformano in fragilità o aggressività (a conferma che gli opposti coincidono), costringendoci ad un’opera di decostruzione e ricostruzione molto faticosa e spesso irrisolta che inconsciamente condiziona i nostri comportamenti.

La memoria si crea nel presente, i ricordi nel passato.

Da piccolo ero affascinato dai racconti delle persone anziane fatti sempre e solo di ricordi, ma ero terrorizzato dall’idea che anch’io da grande potessi ritrovarmi a fare lo stesso, mentre invece mi sentivo sempre e solo proteso in avanti verso mete sconosciute da sperimentare.

Poi ho capito che i ricordi sono come la deriva di una barca a vela, danno stabilità ad un presente che diventa sempre più fragile quando il futuro si fa più piccolo rispetto al passato.

Come dice splendidamente Buz Luhrnamm nel testo della sua canzone Everybody’s free: “Sii cauto nell’accettare consigli, ma paziente con chi li dispensa. I consigli sono una forma di nostalgia. Dispensarli è un modo per ripescare il passato dal dimenticatoio, ripulirlo, passare la vernice alle parti più brutte e riciclarlo per più di quel che valga”.

Ecco perché si ricordano solo le cose positive respingendo dentro di noi quelle negative, un’operazione troppo facile per essere appagante, mentre la sofferenza di ricordare, riconoscere e accettare i ricordi brutti è l’unica che può darti pace e nuova energia vitale.

Ho preso coscienza dei ricordi nella seconda parte della vita quando a metà degli anni ’80 ho abbandonato il mondo imprenditoriale, al quale ero stato avviato dai miei genitori dopo la laurea in Economia e, come mi disse l’amico e critico Philippe Daverio: “prima di finire in manicomio, avrai pensato, provo con l’arte”. La pittura che, dopo l’abbandono della musica, per vent’anni era stata il rifugio delle mie frustrazioni, prima di giovane timido e aggressivo e poi di imprenditore disadattato, è diventata così un mezzo per far affiorare i ricordi.

Ho così lentamente preso coscienza del cumulo di memorie negative che mi avevano massacrato fino allora e ho cercato il filo di collegamento con condizioni esistenziali che appartenessero a tanti.

Il lento e faticoso lavoro di riappropriarsi dei sogni di bambino infranti dagli adulti, mi ha portato nel 1999 a inserire anche la musica nel mio lavoro con la performance “La luce di Gennarino” rappresentata a Palazzo Serra di Cassano a Napoli per la mostra “Luoghi della memoria” in occasione del Bicentenario della Rivoluzione Napoletana del 1799.

Il coraggio del giovane duca napoletano, decapitato a vent’anni per i suoi ideali di libertà e di giustizia, mi ha dato la convinzione di portare in pubblico anche la musica, il mio più grande sogno infranto.

Lo spunto di mettere in musica emozioni intime e profonde con composizioni estemporanee realizzate con l’ausilio del computer, era nato nel dicembre del ’93 alla vigilia della sentenza del processo a mio fratello gemello Sergio “Vigilia”.

Da allora ho realizzato oltre 130 composizione per pianoforte, incise su CD, regalato a pochi amici intimi, fino a “Gennarino” che mi ispirò per la prima volta un lavoro per violino e pianoforte da presentare in pubblico.

Il tappo oramai era saltato e nel 2000 è caduto un altro tabù, la scrittura per la quale da piccolo ero considerato incapace a scuola tanto da essere rimandato a settembre in italiano sin dalla quinta elementare, (credo un record!). Ho così iniziato un romanzo che è in fase di lenta gestazione, nel quale Don Ciccio Ferone, professore di storia alla Nunziatella, racconta una Napoli immutevole tra passato e presente…

Il riferimento al famoso film “Nato il 4 luglio”, mi ha dato lo spunto per il titolo di questa mostra che vuole ripercorrere il cammino artistico compiuto in quasi quarant’ anni e fare, così, il punto della situazione. Sto ripetendo da tempo che desidero prendermi un anno sabbatico e, forse, ci riuscirò, ma la riflessione è già iniziata da tempo, ora si tratta di vedere come realizzarla. Nel futuro del mio lavoro vorrei riuscire ad affrontare la figura senza la paura di banalizzarla per poi arrivare (forse) all’astrattismo, non come esercitazione di linee e curve, ma come superamento del figurativo, strada già tracciata dal grande Mondrian. Ma, soprattutto, vorrei riuscire a smettere di nascondermi dietro le paure del passato, cercando di affrontare la sofferenza necessaria per prenderne coscienza, unica strada per poterle superare. Un percorso ad inseguimento che non finirebbe mai se non ci fosse la presenza della morte a dare senso proprio alla vita.

Dario Cusani, giugno 2001

Autore: Erri de Luca

D: New York l’ho vista come l’ombelico del mondo dove tutto avviene in modo grandioso.

E: L’ombelico è il segno di una separazione, di un distacco, e io non credo che qualcuno voglia essere un ombelico e se questo è un vuoto è un vuoto molto arredato. C’è una soggezione nei confronti di questo baraccone solenne e luminoso, ma dentro di te insorge la resistenza dello sberleffo, non offensivo, ma colorato, come per dire: scendi da cavallo. Una buona regola, perché noi occidentali dobbiamo scendere da cavallo, restare al piano terra e smettere di dilagare. Noi distaccamento occidentale sbiadito, bianco pallido della specie umana.

D. E’ possibile la convivenza tra valori radicati storici e la tecnologia e il progresso che comunque avanza comunque è inesorabile?

E: No, sono degli antagonisti, ma prevale il moderno il nuovo, quello che butta continuamente se stesso perché non fa a tempo a buttare il passato. In questa corsa resistono bene quelli che si sono piantati nel ‘900 come a me che mi sento superato, trascorso...

D. Non ti senti cittadino del presente

E: Sono ampiamente scaduto e mi sento al seguito come i barattoli dietro alla macchina degli “Oggi Sposi”, mi sento al seguito anche di questi tuoi accostamenti perché ci trovo una spirito comune, anche se non amerei nessun luogo in questo modo (Erri indica il quadro “I Love Manhattan”): non arrivo a questo “entusiasmo” un po’ smisurato… (e ride!)

D: ma questo lavoro è ironico, come tutte le cose esagerate, che vogliono mettere in evidenza la loro grandiosità, come Manhattan…

E: più che Manhattan la chiamerei Whomanhattan

D: in un altro lavoro mi chiedo chi è più ricco tra il guerriero Masai che non ha quasi nulla ed il newyorkese che ha quasi tutto?

E: E’ più ricco il newyorkese che si è potuto apparecchiare questa messa in scena dell’altrove. E’ più stabile, piantato sul mondo e destinato a durare, il Masai. Da una parte un’abbondanza di mezzi che dall’altra parte è controbilanciata dal nulla.

I newyorkesi, tutti noi siamo destinati ad essere un ricordo della specie. Questo nostro colorito sbiadirà e credo anche le nostre ricchezze, e questo è il vantaggio. Il Masai ha il passato e il futuro, lui rimane sul suo suolo e ha una consistenza più antica di noi. La nostra civiltà viene da là e viene oggi.

D: Il Masai però non ha neanche la possibilità di aumentare la conoscenza, la ricchezza non è indispensabile ma crea la possibilità di conoscenza e quindi di cultura.

E: Noi che possiamo andare in giro per il mondo e perlustrare con i voli charter tutti i punti del pianeta siamo solo uno struscio di carne che passa da quelle parti e che si riporta dietro un pacchetto di pellicole fotografiche. Il mondo non è che lo conosci se ci vai in giro, il mondo lo sconosci se hai il tuo posto. Il newyorkese conosce appena il suo quartiere come io conosco poco dei miei paraggi. Il Masai invece conosce il suo suolo con il vantaggio di chi non abita in una città e ha uno sguardo d’orizzonte più ampio e dunque vede il tempo e le cose accadere e apparire da più lontano.

D: credo che un newyorkwse potrebbe diventare un buon Masai, ma non viceversa. Che ne pensi? Io sono rimasto un napoletano a New York!

E: I bianchi che hanno attecchito da quelle parti erano prevalentemente missionari, altri ci sono morti o se ne sono scappati. Bisogna avere un grandioso ordine di spostamento per andarsene, tipo quello che ha ascoltato Abramo “Vai, vattene dalla tua casa”. Bisogna essere presi per la collottola e sbattuti lontano da una chiamata molto più grande, per riuscire ad attecchire da un’altra parte, altrimenti uno di noi in quei posti si disfa in poco tempo.

Siamo ugualmente remoti rispetto alla figura del guerriere scalzo che protegge il suo gregge dal leone con una lancia

D: com’è accaduto a tanti italiani meridionali che hanno risalito l’Atlantico alla ricerca di lavoro. Quindi l’America è stata un Paese di accoglienza e di grande opportunità, che è segno di positività

E: Così è stato così e così è ancora oggi: l’America, una terra di accoglienza. Per esempio io so di amici che stanno continuando ad andare in Bosnia nei campi profughi che, nonostante le varie paci fatte, non torneranno mai nelle loro terre e che vengono a scaglioni assorbiti da paesi coma l’America. Noi siamo molto meno accoglienti, dal punto di vista legislativo.

D. Queste grandi migrazioni nei paesi occidentali che sono a crescita zero porteranno radicali cambiamenti…

E: Siamo destinati ad essere assorbiti dal resto dell’umanità

D. L’America, New York, Manhattan ci saranno sempre, ma con tutt’altro genere di persone?

E: Già adesso in alcuni stati degli Stati Uniti la maggioranza è altra

D: Nel futuro la maggioranza quindi sarà africanizzata e orientalizzata

E: Sì come noi, come l’Europa.

D: Come vedi questi miei lavori su New York?

E: Sono dei manifesti di un accostamento irriverente, ma anche speranzoso, sono dei sogni allegri quelli che quando ti svegli vorresti raccontare.

Erri De Luca, scrittore

Autore: Sergio Segio

«I limiti del mio linguaggio segnano i limiti del mio mondo», diceva Ludwig Wittgenstein, uno che se ne intendeva.

Nell’epoca della globalizzazione, il mondo pretende di non avere più limiti.

Pure, e forse proprio per questo, produce e riproduce infiniti confini.

Barriere interne e frontiere esterne, segmentazioni geografiche e frammentazioni sociali in cui regna l’incomunicabilità reale delle emozioni e delle esperienze (dunque, dei linguaggi), laddove e invece proliferano gli universi paralleli delle realtà virtuali, come particelle liberate nello spazio comunicativo della tecnica, tanto ampio quanto- in sé - sterile.

Quella attuale è una realtà virtuale non nell’accezione del possibile, del non più e non ancora, della relazione comunicativa come forma specifica dell’agire sociale e del lavoro nel post-fordismo, ovvero come produzione di senso a mezzo del linguaggio, come avventura itinerante nella rete globalizzata dei saperi e del loro scambio, come esodo liberatorio e liberato, come risorsa capace di ridefinire identità e affermare differenze.

Bensì in quello della sostituzione dell’intrinseco e irrinunciabile modello orizzontale e reticolare della comunicazione in meccanismo di riproduzione e cristallizzazione delle gerarchie sociali, dunque in comunicazione verticale.

La globalizzazione non parla – come dovrebbe- il linguaggio interattivo dello scambio locale-globale, ovvero una sorta di esperanto “globale”, ma frammenta la comunicazione negli infiniti dialetti della perimetrazione egoistica degli spazi (che ha sostituito al Muro di Berlino la “Fortezza Europa” o “l’Impero USA”, cioè le troppe muraglie che escludono ispanici o gitani, arabi o asiatici) o nell’arida neo-lingua della tecnologia, risorsa preziosa per alcuni e nuova povertà per molti altri, e per intere aree del pianeta.

La comunicazione è un diamante a tante facce: esattamente come la realtà sociale e, proprio come questa, è conflittuale.

Illuminarne tutte le facce è il compito dell’informazione, ma anche (forse soprattutto) dell’arte.

Un compito non sempre assolto, né sempre assolto bene. Specie se il conflitto viene occultato, edulcorato e negato.

Conflitto significa contraddizione, ma anche dialogo tra opposti. Dario Cusani situa il suo lavoro in quel confine, in quella no man’s land, in cui si può – anzi, si deve – non prendere parte, non scegliere il bianco o il nero, ma porre piuttosto le condizioni di visibilità –di memoria – del ponte che cuce il passato al futuro.

Vale a dire del presente e delle sue contraddizioni.

In Fresh Fish o in Chi è il più ricco? ci viene prospettata una contraddizione feconda, un conflitto produttivo di movimento e di cambiamento. Di identità che non vengono soffocate nel loro scambio comunicativo pur se in cornici che le rendono (le vorrebbero rendere) improbabili. Come in Speaking in Paradise. È la relazione e il riconoscimento reciproco che crea le condizioni e i luoghi della comunicazione, non viceversa. È l’individuo sociale che è – allo stesso tempo – penetrato e penetrante. Come in I love Manhattan. L’individuo che è segnato, come seconda e vera pelle, dal reticolo urbano che lo rende significante in quanto sociale. È questa, credo, l’estrema contraddizione su cui Cusani propone di riflettere: nel cuore metropolitano, nelle vene topografiche del corpo collettivo, nel tempio della tecnologia, per non essere del tutto soli e muti occorre importare un artificiale pezzo d’Africa, attraverso cui imbalsamare la paura del diverso ed esorcizzare il rimpianto per la verità, infine soffocata dalla rappresentazione.

Se persino la statua della Libertà si consente un Prurito, forse anche noi possiamo concederci la licenza di reimparare a non dare limiti al linguaggio e dunque cornici al discorso artistico, come Dario Cusani suggerisce con le sue opere.

Sergio Segio, esperto di comunicazione.

Autore: Dario Cusani

Questa mostra a New York è nata da un contatto con l’amico Antonio Monda, corrispondente culturale del quotidiano La Repubblica, che mi ha presentato a Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana Zerilli Marimò che, avendo apprezzato il mio lavoro, mi ha accordato lo spazio espositivo sul quale, come faccio sempre, ho costruito la mostra e le opere da esporre.

A loro va il mio ringraziamento.

L’idea di esporre lavori sulle città italiane a fianco di quelli sulla Grande Mela, aveva lo scopo di lanciare un ponte ideale tra l’Italia e New York, luogo di tanti italiani emigrati nel secolo scorso, provenienti in gran parte dal Sud e dalla Campania.

Ho così sviluppato contatti con la NIAF ed ho proposto al Presidente della Regione Campania Antonio Bassolino, di farsi sostenitore di questo progetto per sviluppare l’immagine della sua Regione verso quei giovani italo-americani che non conoscono le terre dei loro padri, ma anche verso tutti gli americani amanti delle bellezze e della cultura italiana.

Al Presidente Bassolino va il ringraziamento di aver prontamente aderito al mio progetto che spero serva a rafforzare questi legami.

Infatti questa mostra sarà esposta anche a Napoli e Salerno e potrà essere una occasione per gli americani di visitare questi “luoghi della memoria”.

Un grazie al sostegno di Davide de Blasio, titolare della Tramontano di Napoli, anch’egli sbarcato a New York con i suoi splendidi prodotti di pelletteria in vendita alla Tramontano Leather goots da SAKS FIFTH AVENUE.

Autore: Dario Cusani

Ho conosciuto New York tardi, lo scorso anno a 51 anni, per la preparazione di questa mostra.

Da sempre avevo intenzione di visitarla, ma non era mai capitata l’occasione o non l’avevo fatta capitare perché forse temevo quest’incontro con una città che immaginavo fantastica come struttura, forse meno come tipo di vita.

L’incontro è stato rispondente alle aspettative: ho ricevuto l’impressione di un gigantismo e di una voracità estremi, dove tutto viene digerito ed espulso per rinnovare continuamente il ciclo vitale.

Un fiume in rapido fluire che ti trascina anche se non vuoi e che difficilmente ti consente di riflettere per capire chi sei, cosa vuoi, dove vai.

Domande che oggi si pongono in pochi e sempre meno e che forse sarebbe meglio non porsi per non aprire nella mente voragini assai pericolose: l’importante è andare avanti senza mai girarsi indietro.

Una cosa indispensabile a New York per avere la sensazione di esistere, non in una vita banale, ma nel cuore della Grande Mela che è (forse) il cuore del Mondo.

Ma dove è facile, anche, sentirsi solo un numero piccolo e infinitesimale perché qui, più che altrove, si avverte forte l’idea della globalizzazione in confronto alla quale, anche i coraggiosi pionieri delle sconfinate terre del "far west" dell’America, si sentirebbero sperduti.

Qui il concetto di "star system" diventa assai cattivo perché qui non è come al tuo paesello dove devi primeggiare su quattro gatti, qui essere una star significa esserlo a livello mondiale e per far questo devi girare a velocità mondiale, devi fare cose mondiali.

Da queste sensazioni contrastanti di piacere e sofferenza ho realizzato i miei lavori su N.Y. cercando di cogliere con ironia, ma con la mia "napoletanità", quella velocità di vita apparente e luccicante che toglie i sapori dell’intimità, sapori antichi che non potranno mai essere sostituiti da nessuna tecnologia che è invece indispensabile per tutto il resto.

L’idea di non poter aprire la finestra di quei grattacieli specchiati, mi ha fatto mancare ancor di più l’aria che per me, che sono un asmatico, già scarseggia. No, le finestre dei grattacieli sono sigillate, non si possono aprire, non si può prendere una boccata d’aria in un giorno di sole: giusto! Chi ne avrebbe il tempo? Che te ne fai di un’aria inquinata quando ci sono i condizionatori che ti riforniscono di aria calda d’inverno e fredda d’estate alla temperatura che desideri? E poi, il pericolo ad affacciarsi da un’altezza simile! E il rumore delle auto che viene dal basso? Giusto, le finestre non si aprono.

Ma contro qualsiasi logica io le ho aperte nel lavoro "Speaking in Paradise" e vi ho messo un balconcino con i fiori di tutti i colori e due donne che "chiacchierano" tra di loro del più e del meno mentre, lì in basso, tutti si affannano nelle loro cose a ritmi travolgenti per arrivare primi nelle quotidiane gare di soldi, potere, successo, fama, bellezza, apparenza, tutto per avere la sensazione di esistere, una sensazione che sembra sfuggire continuamente, basta che ti fermi per un attimo.

Ma mentre "chiacchierano", le due donne innaffiano i fiori, ritirano i panni asciugati al sole, mansioni d’altri tempi che però ti danno la vera sensazione di esistere perché non devi rincorrere nulla e nessuno e da nulla e nessuno sei rincorso.

Questa è libertà. Sì, proprio quella impersonata dalla famosa Statua di Liberty Island, simbolo dell’America, che ho ripreso di spalle mentre, per un attimo si sta grattando il sedere per un improvviso "Prurito" che è il titolo del lavoro.

Un gesto di umana necessità, simbolo della libertà di essere che proprio quella statua impersonifica. Come calare il paniere dal 93° piano del proprio appartamento perché il pescivendolo ha portato il "pesce fresco" che t’illustra con il cellulare raccontandoti cosa ha di buono ed anche altro.

Odori e sapori genuini che sono un vero Paradiso (del palato), quel "Paradiso terrestre" che ognuno cerca a suo modo durante tutta la vita, una condizione esistenziale di equilibrio tra la felicità e la fatica necessaria per conquistarla.

Come fanno le due donne di "Speaking in Paradise" che il Paradiso lo hanno dentro di loro, nei valori delle piccole cose e della comunicazione umana.

O come fa il guerriero Masai che cammina nella Savana Keniota a piedi nudi coperto solo di un drappo rosso e con una lancia per difendersi dagli uomini e non dai leoni che lo temono, mentre i turisti sulle Jeep scrutano impauriti a distanza le belve che invece loro temono.

"Chi è più ricco?" mi sono chiesto nel lavoro che porta questo titolo dove si vede, a fianco del Masai, la Savana ricreata su una terrazza di Manhattan con palme, zebra e giraffa, ultimo simbolo della ricchezza a New York! E’ più ricco il Masai che non ha quasi nulla o il Newyorkese che ha quasi tutto? Ma l’America è "Grande" proprio perché concede ad ognuno la libertà di vivere e di essere come crede e di poter cambiare questo credo ogni volta che vuole, in un mare di contraddizioni che danno il senso della verità che non è mai unica e assoluta, ma è quella che ognuno di noi si costruisce, sperimentandola su se stesso con le proprie convinzioni, e raccogliendo il premio della vittoria o pagando il prezzo della sconfitta.

La stessa America che offre ad ognuno l’opportunità di vivere i famosi "quindici minuti di notorietà" di Andy Wahrol che se tanto ha fatto per conquistarli in vita, nulla ha potuto fare contro un’imprevista precoce morte.

Forse il Newyorkese in Kenia diventerebbe un perfetto Masai, ma non viceversa, come io sono rimasto un napoletano a New York.

Autore: Valerio Dehò

Riprendendo negli ultimi lavori un intuizione di David Hockey, Cusani scandisce attraverso la fotografia il tempo della visione.

Costruisce dalla scomposizione dell’immagine un'altra realtà ne più felice ne più tragica, ma semplicemente altra. Inoltre l’artista interviene con i colori ad olio modificando il testo fotografico quanto gli basta per non sentirsi vincolato alla sua istanza di realtà. Il risultato è da un lato una rivisitazione del soggetto che per quanto conosciuto e abituale vicenda non conosciuto e quindi nuovo, dall‘altro il mantenere con lo spettatore un filamento di realtà che consente alla trama visiva di ricostituirsi, di rigenerasi. Visto e non visto si affiancano, procedono di pari passo.

E dato che Cusani ha anche una solida cultura musicale alle spalle, non può non venire in mente di leggere le sue opere come uno spartito.

Frammentare l’unità in segmenti per ricomporla nella composizione, è tecnica musicale nota, cosi come il procedere dall’estrema analisi alla riaggregazione della sintesi, è operazione filosofica affascinante quanto rischiosa.

Ma, probabilmente la serratura per guardare i lavori di quest’ artista napoletano può essere il nomadismo culturale, affrontare l’avventura dell’ arte come quella della vita come una navigazione per mari che mai percorremmo. E se un approdo dovesse esserci, sarà conforto per una notte, una soltanto.

Autore: Antonio Bassolino

La Campania è stata terra di emigrazione, verso l’America e in particolare verso New York. Un flusso di donne e uomini che arrivavano a Nuova York così come, un migliaio di anni fa, genti venute da lontano popolavano la Nuova Città "Nea Polis", l’attuale Napoli. Un percorso storico che accomuna queste due grandi città dove genti e culture diverse hanno trovato una "patria" comune.

Questo grande fiume umano si è diffuso e radicato sullo sterminato territorio americano, nelle grandi e nelle piccole città e ha rappresentato un importante risorsa che ha contribuito alla crescita degli Stati Uniti. Una presenza che, a partire dagli inizi del novecento, ha saputo utilizzare le grandi opportunità che gli si offrivano e conquistare posizioni di prestigio nella società americana.

Questi italiani che hanno lasciato nelle loro terre d’origine persone care ed amiche, non hanno mai dimenticato i "luoghi della Memoria", come titola la mostra dell’artista napoletano Dario Cusani.

Un artista che ha saputo rappresentare "il calore e il colore della nostra gente" e i legami ancora attuali e vivi che conservano con la loro terra d’origine.

Voglio solo ricordare, tra le tante opere di Cusani, il quadro "Speaking in Paradise", dove due donne chiacchierano dal loro balconcino di un grattacielo di New York, ad un’altezza vertiginosa, tra fiori profumati e panni colorati stesi al sole della Grande Mela. Una rappresentazione felice del rapporto tra radici e presente, tra memoria e attualità che è ancora vivo nella comunità italiana negli Stati Uniti.

La mostra di Cusani vuole essere un ponte tra l’America e l’Italia, e in particolare tra New York e la Campania. Un legame che la nuova regione Campania vuole ulteriormente intensificare con gli Stati Uniti.

Per far riscoprire ai discendenti di quegli italiani, emigrati tanto tempo fa, le radici della loro storia e per far conoscere a tutti gli americani il grande patrimonio di cultura, arte e bellezze naturali che anima i nostri luoghi e le nostre città.

Antonio Bassolino, Presidente della Regione Campania

Autore: Sabina Ghinassi

L’esperienza artistica di Dario Cusani ha trovato in questa serie di mostre evento la conferma della validità di una ricerca che non vuole percorrere iter consueti ma al contrario vuole proporli ed avvicinarsi in modo sincretico alle sensibilità differenti per desolenizzare l’opera d’arte rendendola un fatto “divino” direttamente fruibile già vissuto senza preconcetti o imposizioni accademiche o di mercato;

di qui la scelta di esporre non soltanto in galleria ma in luoghi non direttamente legati all’ elite artistica infrangendone i confini rigorosi come é accaduto in occasione della performance in piazza del popolo che ha coinvolto con sorpresa persone normalmente lontane da frequentazioni e interessi artistici.

Per questo stesso motivo coerentemente Dario Cusani sceglie di vivere l’arte come un viaggio attraverso luoghi portatori di identità differenti un percorso quasi iniziatico che mira allo svelamento o meglio al riconoscimento di realtà nascoste occultate dal quotidiano.

Di Ravenna Dario Cusani ha raccolto l’anima in modo accattivante accarezzando con ironia quelle che possono essere le cadute di stile di questa grande signora un poco negligè e insinuandosi nelle fascinazioni liquide e sotterranee che risuonano di acque ferme specchi opalescenti nei quali si dilata il passato, le seduzioni dei grigiori luminosi fatti di nebbia e valli di scheletri di industrie che trafiggono l’orizzonte;

ma Cusani sia ben chiaro non percorre terreni impregnati di tragicità ne le sue rievocazioni ripetono gli stessi sentieri percorsi dallo spleen dell’Antonioni di deserto rosso, le tracce che Dacus sceglie di seguire o semplicemente sente di dovere seguire parlano di malinconia sorridente che attraversa le cose scende come una cipria leggera su un paesaggio pronta ad essere soffiata via dal vento.

Lo stesso vento che disperde nel cielo le ceneri nere delle ciminiere in un cielo terso attraversato da nubi soffici e pure che corrono veloci senza che nulla possa fermarle. Cosi l’occhio fotografico di cusani cattura frammenti dell’ identità di quei luoghi e la pittura li trasfigura ne scopre i segreti le fragilità non con l’aggressione ma con affetto gentile scivolando con poesia sulla pelle della visione regalando una liberta onirica dilatata e assoluta.

Autore: Dario Cusani

Ho posizionato le illustrazioni a colori dei lavori che seguono in modo da accoppiare le immagini dei vari “luoghi” con il loro significato indicato nel titolo.

Le prime tre pagine sono dedicate ai lavori su New York di cui parlo nella prefazione; poi a pag. 20 c’è il lavoro “I love Manhattan” dove un uomo ed una donna si amano proprio attraverso Manhattan, il cuore di New York, mentre di fianco c’è The Mirage dei magnifici Siegfried & Roy, simboli dell’amore a Las Vegas, con le loro stupende tigri bianche che appaiono e scompaiono nel loro spettacolo di illusionismo che si ripete da un’infinità di anni.

Il Miraggio della felicità di Las Vegas mi ha molto impressionato, perché non credevo che si potesse crearlo con un mondo finto tanto perfetto da sembrare vero. Poi a pag. 22 e 23 andiamo in Italia con due simboli di dominazioni “imperanti” viste con la stessa prospettiva: il Maschio Angioino di Napoli e il Duomo di Milano.

Il primo simbolo del potere del Re e il secondo di quello della Chiesa, due elementi che hanno caratterizzato la storia dell’Italia e dell’Europa negli ultimi duemila anni.

Nelle pagine 24 e 25 un omaggio a Roma, città nella quale vivo da oltre quindici anni e dove sono presenti ovunque simboli di tutte le religioni.

A sinistra in “Roma celeste” la statua della Madonna domina la scena sulla colonna Troiana allungata fino in cielo mentre sulla destra il Palazzo del Parlamento vacilla, segno dell’instabilità della politica italiana.

Nella pagina a fianco un obelisco egizio, sul quale ho inciso un mio aforisma, guarda le chiese di Piazza del Popolo sormontate, non dalla croce cristiana, ma dalla mezzaluna dell’Islam, simbolo dell’integralismo che avanza da Oriente e che credo dominerà la scena nel terzo millennio.

Le pagine 26 e 27 sono dedicate ai Twin, essendo anch’io gemello di mio fratello Sergio, al quale sono intimamente legato, una condizione esistenziale molto bella e difficile con due caratteristiche precise: quella di Capri nella quale un Faraglione è più piccolo dell’altro e simboleggia la condizione d’inferiorità che si può creare tra i gemelli, mentre in San Francisco rappresento lo sdoppiamento da un’unica origine.

Poi nelle due pagine seguenti ci sono, due momenti fondamentali dell’esistenza umana: il matrimonio e la morte. Il primo avviene tra i cappelli di “Zana Zanasi” che escono dalla vetrina dove sono separati, a sinistra quelli da donna e a destra quelli da uomo, per unirsi in matrimonio volando sulla scalinata; nella “Galleria” invece è simboleggiata la morte dell’arte quando essa è finalizzata solo alla speculazione del mercato o è preda della vanità dell’artista teso soltanto al raggiungimento del successo.

Ma quando la luce della creatività rimane luminosa, com’è in fondo alla Galleria, allora l’arte è salva perché ha mantenuto la sua purezza ideale al di sopra del materialismo.

Il tema della vanità unisce anche i due quadri a pagina 30 e 31 con la famosa Piazzetta di Capri, vetrina di “Eccentrica virtù” di chi porta al guinzaglio improbabili animali da passeggio come la formica, il delfino o il serpente, mentre nell’altro quadro “MOCA il sepolcro” gli squali isolano il Museum of Contemporary Art di Los Angeles diventato il sepolcro dell’arte perché luogo di vanità per pochi.

Infatti credo che l’arte debba uscire dalle case private, dalle gallerie e dai musei per tornare tra la gente nei luoghi pubblici di vita quotidiana.

In ultimo a pagina 32 c’è l’interno di “Hard Rock Cafè” di Los Angeles arredato con gli oggetti simbolo del ‘900, come la Statua della Libertà, la chitarra di Elvis Presley, o la Vespa.

Ho iniziato nel 1989 questa mia ricerca sulla condizione esistenziale delle persone proprio con gli “interni” di casa, ritratto della famiglia che nel suo salotto si rappresenta attraverso gli oggetti e gli arredi.

Poi nel ’94 sono passato alla città come ritratto di una popolazione e della sua storia per poi affrontare, man mano, tanti altri “luoghi del vivere” al fine di simboleggiare astrazioni come l’amore, la vanità, l’ambizione, la fede, il potere…

Tutte quello che, durante la vita, mettiamo nel nostro e che alla fine ci possono far dire, con Pablo Neruda: “Confesso che ho vissuto”!

Autore: Erri de Luca

Stavamo nella stessa borghesia napoletana di dopoguerra, Dario Cusani e me. Ho disertato la classe e la città di origine, molti anni di mestiere operaio lontano da loro. Ho messo mano in capannoni di cantiere, d’industria, ho imparato la fabbrica, la grande, al nord. Vedo le opere di Dario: riporta notizie da una demolizione di cui mi sento parte.

Vedo il frutto e l’inventario del suo passaggio sul litorale della siderurgia perduta, il suo sguardo da perito settorio che scruta reperti di autopsia del millenovecento. Sento che è giusto così, tra noi due. A me spettava il pezzo da sgrossare nelle macchine utensili delle otto ore, quando il giorno degli altri era ancora da sorgere e la classe di uomini che avevo intorno era in produzione dalle sei. A me spettava un pezzo ancora intero di millenovecento, secolo di operai che spostavano a forza di spallate il confine delle dignità, dal salario al rispetto.

A Dario spetta di racimolare tra le macerie, a fabbrica e secolo spenti.

Lui vede cose che non so vedere: l’ammasso di cavi in cui è passata la forza elettrica e motrice diventa una pietanza, appetitosa o immonda, sul piatto di una baia vuota di noi.

Vede spazio futuro senza case né strade, senza uomini per risarcimento della terra. Sarà così, un groviglio di cavi e sopra si poserà in volo la foglia, arrogante di profumo, del basilico.

Dario vede ciminiere-candeline sopra una torta zattera appoggiata al mare cupo di sotto, che l’assorbe. Vede un oleodotto millepiedi e un carro ferroviario che sta eseguendo sfratto di macchinari a velocità di: “indietro tutta”.

Per entrare in una fabbrica schiantata ci vuole il suo mirino, freddo prima, visionario dopo. Dario vede, brucia il grano di profezia che distingue l’artefice dall’artificiale.

Porta in collisione i fotogrammi sbalorditi della demolizione con la pasta violenta dei suoi oli a colori che aggrediscono il vero con forza di cancellazione. Lui governa il loro istinto di sopraffazione e salva le ultime sagome di un secolo metallico.

Dario vede, ma non può vedere quello che manca.

Manchiamo noi, operai cupi del primo turno che incrociamo tra gli spogliatoi e gli impianti quelli che smontano dalle ore di notte e sbuffiamo saluti spenti.

Manca la massa umana che fu classe e carne da macchine ed è stata rottamata a parte. Non c’è il muro dei rumori, così alto da dover gridare nell’orecchio del compagno per una parola e quando partiva uno sciopero interno che spazzava un reparto, le macchine si ammutolivano ed esplodeva il chiasso scatenato della lotta, il più bel rumore delle fabbriche del mondo, batteria scassatimpani della libertà. Mancano le facce dietro la cassa di un compagno morto sul lavoro, pratica archiviata di incidente.

Quelle facce sono state loro l’inesorabile incidente del millenovecento. Manca l’odore degli spazi chiusi di una fabbrica e di un Lazzaretto, quando non erano ex.

La modernità deodora.

Ecco Dario siamo qui due facchini complementari, io porto il prima e tu il dopo.

Questo è il paesaggio e noi non siamo degli affacciati sopra, ma due semilavorati, due pezzi imboscati che non vogliono passare in finitura.

Erri de Luca, scrittore